giovedì 17 luglio 2014

Caravaggio: un'intervista impossibile ad un artista che visse tra genio e sregolatezza

Dopo la passeggiata al Pio Monte di Misericordia alla scoperta della bellezza materica e giocata sull'incastro tra luci ed ombre tipica della pittura di Caravaggio, ecco una un tuffo nella vita e nell'arte di Michelangelo Merisi fatto attraverso una chiacchierata con Luigi Auriemma, esperto d'arte e artista.

Quando ho chiesto a Luigi come mai un genio come Caravaggio fosse stato così autodistruttivo da morire per quella che tutto sommato er una bravata (un rapporto con un Cavaliere di Malta), mi ha risposto che il suo genio è imprenscindibile dalla sua sregolatezza, dalla sua vita portata sempre oltre il limite, oltre il confine.

Perchè solo una mente così, riottosa a qualsiasi regola ed imposizione, sempre pronta alla sfida, poteva avere le "carte in regola" per pensare in maniera davvero alternativa rispetto alla corrente di pensiero dominante, capace di concepire uno stile ed un'arte  in grado di nascere da una radice opposta rispetto all'asse notrmativo dell'epoca, capace di procedere in maniera antioraria.



A questo punto, l'impossibile diventa possibile, grazie ad un artista, Luigi Auriemma, legato alchemicamente all'arte di Caravaggio e profondamente "stregato" dalla sua personalità. 

Una personalità ed un'arte che Luigi Auriemma ha studiato ed approfondito progressivamente, in maniera diacronica, fino a giungere ad interpretazioni alternative ed "eccentriche", cioè non convenzionali, rispetto a quelle correnti dell'arte caravaggesca.

Interpretazioni e decodifiche che lo portano a vedere in Caravaggio una sorta di precursore del cubismo, per la sua capacità di scomporre il corpo unamo, ed un pittore concettuale, capace di svelare tutto l'universo di idee che sta dietro la parte più esterna del dipinto, quella pellicola di colori che costituisce la pelle del quadro, dietro la quale ci sono i "muscoli, i tendini e le ossa", cioè tutto un universo di senso e significato.

Ed ora via libera alla nostra "intervista impossibile".




Grande artista ed uomo tormentato ed inquieto: come si sono esplicitate queste tensioni?


In ogni parte delle sue opere, nelle strutture, nelle composizioni, nel chiaroscuro, nei colori, nella materia della pittura, nel violento uso della luce rispetto alle tenebre: in ogni pelle delle sue opere.
Ogni pennellata di Caravaggio è “coscienziosa”, ogni pennellata porta dentro di se il suo respiro, il ciclo della velocità che compie il sangue nel proprio corpo: il colore è il suo sangue; l’energia della sua pennellata è la sua febbre, il suo tormento.




Oggi la nostra è una società conflittuale: piatta e priva di curiosità e sogni da una parte, irrequieta dall'altra, dissonante. Oggi cosa dipingerebbe ed in chi si riconoscerebbe Caravaggio?

Oggi Caravaggio sicuramente non dipingerebbe ma farebbe arte con la stessa forza, intensità creativa e lucidità temporale, vivendo a pieno questo tempo in tutte le sue problematiche, positive e negative. 

Ogni artista che ha una profonda coscienza di vivere il proprio tempo, consapevole di essere una parte (anche se minima) del grande ingranaggio che è l’universo, partecipa alle sue armonie. Caravaggio forse oggi sarebbe un artista multimediale, userebbe più tecniche per realizzare le proprie opere; intellettualmente sarebbe vicino ai più deboli e a i problemi più seri che compromettono il nostro pianeta, forse un ecosostenitore: un ecologista. Sarebbe un innovatore, un genio. Come in un film della metà degli anni ’80, molto interessante, la vita di Caravaggio è messa a confronto con la società contemporanea (“CARAVAGGIO” – regia di Derek Jarman -1986).




Caravaggio fu posto in opposizione con la pittura edulcorata ed idealizzata, celebrativa della potenza clericale. In realtà il suo portare in primo piano gli umili e gli ultimi proveniva da una profonda conoscenza delle scritture. Gli ultimi di cui parla anche papa Francesco.

Perché questa dicotomia tra visioni ecclesiastiche?

Le due diverse visioni nascono dall’esigenza da parte della Chiesa come istituzione di sostenere un’immagine edulcorata della religione, positiva, potente, invece Caravaggio realizza le sue opere traendo ispirazione direttamente dalle Sacre Scritture. 

Si rivolge direttamente alla parola di Dio e non a quella degli uomini, anche se uomini di chiesa. Caravaggio conosceva sicuramente le Sacre Scritture. È documentato che Simone Peterzano, maestro di Caravaggio soleva dire all’allievo che per diventare un bravo pittore bisognava conoscere profondamente “il colore e le Sacre Scritture”.

Portare in primo piano contadini con piedi sporchi, poveri con vestiti laceri non rappresenta un senso di ribellione verso la Chiesa (al committente che più volte ha rifiutato le opere commissionate) bensì l’adesione fedele alle Sacre Scritture dove analfabeti, contadini e pastori sono testimoni della parola di Dio.




Il genio per produrre finisce per distruggere se stesso. Perché?

Il genio alla nascita porta già in se una forza naturale produttrice e che nel prodursi va verso la distruzione di se stesso. Il genio trasforma attraverso la sua produzione la distruzione dell’effimero a favore della sua immortalità.




Ogni opera proietta sulla tela frammenti di vita e di percorso umano ed emotivo. Quali i moti dell'animo di Caravaggio che si ritrovano sulla tela, nel colore e nelle nuove prospettive utilizzate?

Con Caravaggio si ha un profondo cambiamento nella concezione dell’arte. Caravaggio comincia a non rappresentare ma a presentare, introduce un verbo molto caro a quasi tutte le avanguardie storiche e all’arte contemporanea.

Caravaggio inserisce nelle proprie opere il tempo, non quello sequenziale come nei grandi “racconti”, contro la stasi dell’arte precedente dove ogni gesto era fermo, bloccato. Inserisce la velocità, il tempo attuale l’attimo, l’istante (come nella “Cena in Emmaus” dove il cesto di frutta dipinto è bloccato un attimo prima di cadere dal tavolo) . 

Inserisce la concitazione del momento, i gesti: la velocità di essi. I personaggi di Caravaggio non comunicano con la voce ma con i gesti: sostituisce il linguaggio verbale con i linguaggio dei segni. La sofferenza, le urla, il dolore dei personaggi presenti nelle opere sono trasformate in gesti (come in un film muto). 

Noi fruitori udiamo tutto ciò non attraverso l’orecchio ma attraverso la vista. Nella tela delle “Sette opere di Misericordia” Caravaggio ci mette di fronte ad un orecchio che sbuca dalle tenebre che probabilmente non appartiene a nessun personaggio ( almeno visibile) ma sta lì ad ascoltare il clamore, il chiasso, il rumore di quella scena e noi fruitori proprio attraverso la visione di quell’orecchio, trasformato in un megafono possiamo ascoltare i suoni di quella scena. È un quadro che parla, che sente, di cui noi possiamo attraverso il senso della vista ascoltarne le voci.



Caravaggio è presente in varie sue opere, sempre nelle “Sette opere di Misericordia” è fra gli astanti; è testimone di quello che sta accadendo, non rappresenta da spettatore ma presenta da testimone, come se quella scena si fosse svolta lì per la prima volta, in quel momento attuale, in quell’istante. 

Tema molto amato da molti artisti contemporanei.

Le scene si appiattiscono, la profondità prospettica viene assorbita dal nero delle tenebre, viene portato quanto più possibile in primo piano: lo sfondo diventa fondo. La scena squarciata da questi improvvisi lampi di luce che più che costruire le figure le lacera, le smembra, le disseziona come il bisturi di un chirurgo, così come nelle avanguardie storiche del primo novecento Apollinaire dirà dei pittori cubisti e in particolar modo di Picasso “studia un oggetto come un chirurgo disseziona un cadavere” [1]

Anche in letteratura, specialmente nella poesia futurista russa dove nel testo “Parola come tale” poeti come Kruchenykh e Chlebnikow spiegano che “i pittori budetljàne amano utilizzare parti del corpo, sezioni, mentre i budetljàne creatori di parole amano servirsi di parole squartate, di mezze parole e delle loro bizzarrie e astute combinazioni”[2]

Allo stesso modo l’unica natura a cui si riferiscono i cubisti è quella “morta”, proprio come quella che predilige Caravaggio rendendola soggetto autonomo e ponendola in primo piano con la stessa dignità degli altri suoi personaggi.




Caravaggio il contestatore, che si faceva beffe dl potere costituito, che voleva uscire a tutti i costi dalle regole e da una vita tranquilla. Cosa penserebbe della nostra scena privata, incapace di vivere davvero emozioni e sentimenti, e della nostra scena pubblica, fatta di beghe, di veleni e colpi bassi (riassunti da Battiato nella sua frase al centro di polemiche?)

Caravaggio si butterebbe nella mischia e risponderebbe con un sorriso beffardo.


[1]  G. Apollinaire – I pittori cubisti – 1996 – Milano – SE
[2] “Parole come tale” in G.Kraiski – Le poetiche russe del novecento – 1968 –Bari - Laterza

lunedì 14 luglio 2014

Caravaggio: la misericordia trasfusa in luci ed ombre

A via Tribunali 253, in una piccola chiesa all’interno del Pio Monte di Misericordia (http://www.piomontedellamisericordia.it/) , è custodito un quadro, un piccolo gioiello in grado di emozionare e di riempire gli occhi, tanto da far pensare di essere vittime della sindrome di Stendhal.



E’ il quadro Le opere di Misericordia di Michelangelo Merisi da Caravaggio, più noto semplicemente come Caravaggio.

L’opera fu commissionata al pittore durante un suo soggiorno partenopeo e realizzata tra il 1606 ed il 1607 (durante il primo soggiorno, il secondo ci sarebbe stato tra il 1609 ed il 1610), su incarico della Congregazione del Pio Monte della Misericordia per volere di Luigi Carafa-Colonna, membro della stessa, la cui famiglia protesse Caravaggio nella sua fuga da Roma.

Nell’opera si vede un uso dei chiaroscuri tipici della pittura caravaggesca portato ad un livello magistrale.

E’ come se  un lampo di luce, un flash ante litteram, illuminasse i vari personaggi, intenti ad interagire in uno scorcio di un vicolo partenopeo,e li immortalasse nelle loro posizioni.

I personaggi, come sottolinea Luigi Auriemma, artista ed esperto d’arte, sono fermi, "congelati" nell’attimo in cui sono stati ritratti, ma nei loro movimenti si intuisce un’azione concitata, un pullulare di vita e di suoni... Forse da qualche parte vi è anche un menestrello che in un viuzza laterale suona e canta la storia della Città delle Sirene.



L’azione è improntata ad una grande dinamicità con gli angeli della parte superiore che si abbracciano e che con le braccia e le ali, ma anche grazie alla nuvola che sorregge la Vergine con il bambino, creano una sorta di girandola..

Come se i protagonisti fossero avvolti da un vento, di dantesca memoria, che li sospinge e li trasporta.

Il braccio di uno dei due angeli proiettato verso  il basso è il punto di raccordo tra cielo e terra. 

La mano ha una posa ardita, una scelta, ancora una volta, pittoricamente coraggiosa, una sfida e che vuole superare il “limite”.

“La mano e le dita – continua Auriemma – sono puntate verso lo spettatore, una sorta di artiglio”.



Nella parte inferiore, quella terrena, è tutto più statico. A colpire lo spettatore è l’alternanza di luce ed ombra con cui Caravaggio seziona letteralmente il corpo. 

La parte colpita dalla luce, infatti, è riprodotta fedelmente con i muscoli e la colonna vertebrale riprodotte nella loro anatomia, mentre la parte in ombra sembra scomparire, quasi come se non esistesse.

Non solo l'alternanza di luci ed ombre seziona il corpo ma c'è un altro esempio di maestria e consapevolezza nell'uso del colore e delle forme.

Infatti,  la scena è composta attraverso un perfetto gioco di simmetrie, di incastri geometrici e di rimandi interni.

Basti pensare al corpo della donna che allatta il padre (opera di misericordia: dare da mangiare agli affamati e sollievo ai carcerati) la cui mano è appena abbozzata.

“E’ il nostro cervello – continua lo storico dell’arte – ad intuirne la presenza. La nostra mente, gestalticamente, dà corpo ad una qualità emergente”.

Ci sono poi alcuni personaggi comprimari di cui si vedono solo alcune parti anatomiche, un piede o una gamba, seminascoste. 

Ad esempio una testa ricciuta, con un collo appena accennato ed un orecchio, che ad un occhio meno attento potrebbe sembrare un pezzo del mantello di uno dei personaggi in primo piano.

“Quell’orecchio a mio parere – sottolinea Auriemma – è ricettore e cassa di risonanza di tutti i suoni, il vociare, i rumori che si coagulano nel vicolo”.

Ed ancora i piedi che spuntano da sotto ad un lenzuolo, forse quelli dei una delle tante vittime della peste (opera di misericordia: dare degna sepoltura ai morti).

Anche in questo dipinto Caravaggio, come ribadisce l’esperto d’arte, si dipinge tra i personaggi, anche se leggermente defilato.



E’ il suo stratagemma per attuare una sorta di “osservazione partecipante”, per essere contemporaneamente nel cuore dell’opera , guardando dall’interno all’esterno l’effetto che essa produce sugli spettatori, ed esterno, colui che dipingendo lo scenario contribuisce a dargli vita ed a popolarlo.

Al cospetto di un tale fulgore impallidisce anche un’opera di pregio come La liberazione di San  Pietro  di Battistello Caracciolo.

L’opera, che pure è figlia della lezione di Caravaggio, tant’è vero che Giovanni Battista Caracciolo può essere definito a  tutti gli effetti un caravaggesco, pur recando traccia della gestione del colore di Michelangelo Merisi, che è stata ben appresa, è come coperta da una patina che ne offusca il brillio, uno spesso strato di polvere che opacizza il tutto, ed una morsa che blocca i personaggi in una gabbia statica.



Nel guardare l’opera di Caravaggio ci si sente avvolti da un alone di magia e proiettati indietro di oltre 4 secoli.

Perché ogni opera ha la sua storia, le sue storie, da raccontare.

“In ogni opera ci sono più strati – conclude Auriemma -. La parte dipinta, attraverso le forti pennellate materiche, è la pelle, il mezzo di contatto, il filtro tra interno del quadro ed esterno, tra chi guarda e l’oggetto di quello sguardo. Più sotto c’è tutto il mondo interno all’opera, i concetti che hanno contribuito a darle significato, che potremmo paragonare ai muscoli, ai tendini, allo scheletro”.

Come avviene per la pelle anche la parte esterna dell’opera è quella che è più soggetta alle intemperie ed ai graffi del tempo, che può rovinarsi, screpolarsi, persino arrivare a spaccarsi ed a "sanguinare", ma che è indispensabile per stabilire un contatto tra universi di senso e significato, per “sentire” e trasmettere le emozioni.


* Consulenza di Luigi Auriemma