giovedì 31 maggio 2018

Una storia confusa: andare avanti per capire il passato

 Se quella che canta Gianluca Grignani  è "La sua storia storia tra le dita", quella raccontata da Enrico Pentonieri è Una storia confusa (Europa Edizioni).

Quello che l'autore ricostruisce è un microcosmo di amici, Andrea, Michele, Marina, Lara, Gemma.  I tempi e gli episodi delle loro esistenze si intrecciano, a volte si sfiorano solo, altre volte si scontrano, deragliano, per poi riannodare i fili. Quegli stessi fili che troppo spesso, per le vite di ognuno, finiscono per essere tranciati.

Abbiamo fatto una chiacchierata con l'autore per farci raccontare da lui il "suo" senso ed i frammenti di vita che rifluiscono in questo libro.

D. Perchè la tua è Una storia confusa?
, R. Perchè gioco volutamente sull'ambiguità temporale delle vicende narrate. D'altronde anche i tempi della scrittura di questo libro sono stati atipici, caratterizzati da brusche accelerazioni, interruzioni e veri e propri salti temporali. Ho scritto i primi quattro capitoli tutti d'un fiato. Poi vi è stato uno stop di circa un  anno e mezzo e, altrettanto all'improvviso mi sono detto "Quasi quasi lo finisco!"... nonostante avessi perso il filo conduttore. Anche la pubblicazione è arrivata quasi per caso. Mio padre, che si era appassionato all'idea, ha inviato la bozza a diverse case editrici ed  un bel giorno è arrivata una risposta positiva.

D. Il protagonista Andrea è molto legato ai suoi amici: sono in qualche modo il suo alterego, gli sono complementari e necessari. Ciononostante li delude, a volte li tradisce e li abbandona. E non farà mai un vero sforzo per recuperare il rapporto che avevano, per cercare un riavvicinamento autentico. Perchè?

R. Andrea distrugge i ponti ed i legami dietro di sé per non tornare indietro, perché è consapevole che la vita va vissuta in avanti. In tal senso, nella sua apparente confusività, la temporalità del romanzo è logica. A prima vista, quello che ruota intorno al protagonista non sembrerebbe essere importante. Andrea è protagonista, e vittima al contempo, del proprio egocentrismo. Costruisce ed alimenta il mito di se stesso. A volte si ritrae da alcune esperienze pur di mantenere intatto quell'immagine mitizzata, affinché il suo interlocutore non entri davvero in contatto e si confronti con le sue fragilità. Ma alle sue capacità e potenzialità, a quel mito, in fondo non crede fino in fondo neanche lui.



D. Qual è l'obiettivo di questo libro?

R. Far emergere una consapevolezza: che alla fine è il contorno di persone che aveva accanto ad aver permesso al protagonista di fare ciò che fa. Da soli, infatti, non si va da nessuna parte. Si è trattato di una scrittura terapeutica, a metà tra il dialogo interiore e lo 'sfogo' tra amici. D'altronde, per me la scrittura è sempre stata importante: scrivo, per me stesso, da quando avevo tredici anni. Questo romanzo mi è servito per riannodare i fili. Spesso si ricordano in ordine sparso le cose che hanno modificato le scelte della propria vita. Attraverso la scrittura si può riuscire a ricostruire un senso.

D. Dove e quando è ambientata la storia?

R. Non vi sono connotazioni temporali e geografiche. Il vero protagonista, infatti, è lo stato d'animo. Credo che non sia indispensabile identificare il luogo, anche se alcune atmosfere sono inequivocabilmente partenopee. L'identificazione, invece, potrebbe essere di tipo generazionale.



D. E lo stile?

R. Il linguaggio è volutamente "inurbano" e pieno di errori sintattici. Vi è un'attenta scelta di parole slang.


lunedì 21 maggio 2018

Museo Archeologico di Napoli: quei soffitti che raccontano di epoche lontane

E' più che giusto e fondato dire che al Mann, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, non si sa dove guardare, tanta è la sovrabbondanza di bellezza, storie racchiuse in oggetti e dipinti, arte e stimoli visivi di ogni sorta. Le statue e gli affreschi dialogano con i pavimenti riccamente istoriati e, scopro, una volta di più, con dovizia di particolari, in occasione della celebrazione della festa dei musei, anche con le volte ed i soffitti.

UN PO' DI STORIA DALLA FONDAZIONE IN POI

Alzando gli occhi verso i soffitti e le volte, si resta abbacinati da un biancore un po' polveroso: quello che molti non sanno è che quell'intonaco cela delle bellissime pitture pompeiane, con il loro rosso ed oro che, con il mutare, nei secoli, del gusto museografico, furono ricoperte.



La prima volta ad attrarre l'attenzione è quella realizzata con stelle rosse ed azzurre, che richiama la decorazione delle terme stabiesi a Pompei. Si prosegue con un altro soffitto che riproduce il simbolo della svastica, tipica delle terme maschili. Si vedono anche una lira, un cigno, una striscia di cassettoni e, a corredo, una serie di mobili e suppellettili che richiamano il gusto per l'antico e sono rifatti imitando tale stile.



Il Museo, come edificio, nasce come scuola di cavalleria nel 1555, ma la scuola non entrò mai in funzione a causa dei terreni paludosi. Poi, l'edificio viene adibito ad università per i regi studi. L'iniziale piano unico viene progressivamente ampliato. E' il periodo in cui si susseguono, in vari punti nevralgici, le vicende legate all'inizio degli Scavi: prima ad Ercolano, poi a Pompei, infine a Stabia.

I reperti bellissimi, preziosi e testimoni dell'avvicendarsi di varie epoche e stili, nonchè della storia e degli usi e costumi dei popoli, vengono allocati tra la Reggia di Portici e Palazzo Reale. In seguito, per celebrarne la bellezza e per celebrare la casata di sua madre Elisabetta Farnese, Carlo di Borbone pensa di creare un museo farnesiano. In seguito punta ad unire il museo ercolanense e quello farnesiano in un museo universale.



Dove oggi sorge lo scalone monumentale, inizialmente era ubicata l'aula magna dell'università degli  studi regi, detta anche aula del concorso. Poteva  ospitare diverse centinaia di persone.
Il sovrano chiama diversi scultori per creare una scala adatta a congiungere l'allora aula magna con i locali della biblioteca. Il primo a realizzare una scala in muratura è lo scultore Pompeo Schiantarelli.

 Ad Antonio Canova,  invece, viene affidato il compito  di realizzare la statua di Ferdinando I Pomponio. la statua, però, verrà realizzata solo nel 1822, dopo  numerose vicissitudini politiche, caratterizzate dall'allontanamento dalla città di Ferdinando e dalla fase francese di regnanza.



Viene, inoltre, creato un lucernario per far "piovere" la luce dall'alto, onde esaltare la magnificenza della statua dedicata a Ferdinando I. Ai  due lati di quello  che oggi è  lo scalone vengono poste due Veneri ed in basso il leone, simbolo dei Farnese.

LE SALE

Nel gran salone della Meridiana (che prima costituiva la biblioteca), una delle più imponenti sale coperte d'Europa (la cui costruzione fu iniziata tra il 1612 ed il 1615 ed ultimata solo nel 1804) sul soffitto troviamo la rappresentazione dell'apoteosi di Ferdinando IV, definito re Nasone e scugnizzo, e l'aristocratica Maria Carolina.



La coppia reale è circondata dalle virtù e ai lati si leggono due motti che sintetizzano la politica culturale dei Borbone  "Le virtù del popolo sono le virtù del re", concepito come protettore del suo popolo ed insieme delle arti che per fiorire e essere in rigoglio devono essere coltivate al pari delle scienze.

L'altro motto recita: "Iacet nisi pateant" ed allude alla liberalità del re ed al fatto che le arti finiscano per languire se non vengono esposte e fruite dal pubblico. In questa sala, dove a terra vi è ancora, in stato di perfetta conservazione, la meridiana, realizzata tra il 1790 ed il 1793, doveva sorgere, negli intenti dell'astronomo Giuseppe Casella, l'osservatorio astronomico, un progetto presto abbandonato per l'inadeguatezza del luogo.

In quello che oggi è il salone della Meridiana, in virtù di una continuità tematica, un tempo era posta la statua di Atlante, che regge sulle sue spalle il peso del mondo, oggi ubicata all'ingresso.



Sulle imponenti pareti fanno bella mostra di sé alcune tele di grandi dimensioni, di non grande valore, realizzate dal pittore genovese Giovanni Battista Draghi realizzate nel 1800, suddivise in due cicli. Si tratta di tele autocelebrative. Il primo ciclo è dedicato ad Alessandro Farnese ed al futuro papa Paolo III. Il secondo alle nozze tra Elisabetta Farnese e Filippo di Spagna. Queste tele furono recuperate dal Re da Palazzo farnese a Piacenza, che nei secoli subì un destino di progressivo spolio   e parziale distruzione,  ed in  parte furono poi restituite e ricollocate nel medesimo palazzo.

Alessadro  Farnese viene rappresentato  con  abiti di  foggia  barocca ma con  un atteggiamento e cipiglio  da imperatore romano, continuatore dei fasti dell'antichità e, allo stesso tempo, strenuo difensore del cattolicesimo, abile militarmente e dotato di ingegno acuto.



Infatti, alcune tele mostrano la  messa in opera di ingegnosi stratagemmi  militari, volti ad espugnare le città nemiche,  come ad  esempio i ponti di barche e le  torri  di legno che superavano, in altezza, le mura di cinta.



In un quadro viene anche rappresentata la morte del condottiero e stratega: un angelo gli pone sul capo una corona di alloro, simbolo di successo e vittoria militari terrene, ed una di stelle, emblema di spiritualità.

Alle pareti, poi, sono ancora visibili alcuni ganci. Trattandosi del locale dove in un primo momento era ubicata la biblioteca, a questi ganci erano fissati pesanti scaffali lignei. In seguito,  fino al 1957,   il salone fu abbellito con ricchi arazzi,  che  rappresentavano la battaglia di Pavia dono della casata d'Avalos. In seguito ad  un  doppio dono reciproc,o gli arazzi vengono trasferiti al Museo di Capodimonte e le tele ottocentesche al Museo Archeologico.



A quell'epoca, nelle diverse sale, facevano sfoggio di sé anche numerose stampe, prodotte dalla  stamperia interna: il Gabinetto delle  stampe.

Due sale sono dedicate alla  dinastia dei  Lucchesi Palli (nel nome è richiamata la provenienza dalla città di Lucca). Eduardo,  marito  di Giovanna De Gregorio, nel 1888  dona al  museo  la sua preziosa e ricchissima biblioteca drammatica e musicale.




La sala è dedicata ad Adelaide Tosi, moglie di Ferdinando, una cantante lirica che si esibiva nel ruolo di soprano. Il figlio Febo Edoardo fa affrescare le sale e le volte con scene tratte dalla letteratura drammatica e fornisce gli arredi, comprese alcune panche.

Poi dà  ordini che alla gestione degli ambienti sia destinata una rendita di 3000 lire, affinché sia loro assicurata  la  massima cura e possano godere di un destino autonomo di fasti, al di là del destino cui possa essere soggetto il resto dell'edificio.

Tra i bibliotecari cui viene affida  la direzione della biblioteca lucchesiana spicca il commediografo Achille Torelli. A quell'epoca Benedetto Croce ricopre il ruolo di ministro dell'istruzione.



Questo viaggio attraverso le epoche e gli stili, i fasti e le cadute, sul filo della memoria e del racconto, si conclude con un dubbio, che in fondo è anche una speranza: quello che al di sotto degli spessi strati di intonaco siano celati, e custoditi dall'agguato della morsa del tempo, preziosi affreschi pompeiani, dagli inconfondibili toni rosso e oro.



martedì 15 maggio 2018

9_9 di Kristin Man: scatti per rappresentare la relazione

Si chiama 9_9 l'ultimo progetto fotografico di Kristin Man, in mostra al Pan, il palazzo delle Arti di Napoli (via dei Mille 60) fino a lunedì 21 maggio.

Un progetto che racconta di una relazione, quella in cui due individui da estranei diventano "intranei", per usare un'espressione cara al filosofo Aldo Masullo.

Quel momento in cui si entra reciprocamente l'uno nello spazio vitale dell'altro, in cui si costruisce un agone simbolico-relazionale condiviso e ci si sente a proprio agio, un po' come se si fosse trovata "casa".

Il progetto fotografico prende le mosse nel settembre 2014 e come evidenzia Kristin "non esisterebbe senza l'esperienza della Scuola internazionale, l'UWC Atlantic College, in Galles, dove sono arrivata grazie d una borsa di studio".

E' quello un momento di confronto e scambio di visioni, di usi, costumi, abitudini esistenziali, tra persone provenienti da ben 60 Paesi diversi.

"La selezione - racconta Kristin - avveniva non solo in base alle competenze accademiche, ma anche in base alla potenzialità di condividere esperienze e spazi, di essere aperti al confronto. Una caratteristica molto importante era quella della socialità. La scuola mi ha permesso di implementare tante capacità importanti".

Kristin, poi, vive undici anni a Londra ed in seguito approda a Roma per alcune settimane per capire meglio la lingua e la cultura italiane, con cui è venuta in contatto attraverso alcuni compagni alla Columbia University.

Tra il 2011 e il 2012 abita per circa due anni a Singapore e si dedica ad un progetto in cui, attraverso scatti in cui non sono presenti persone, avvia la sua personale ricerca della bellezza.

La sua idea di bellezza confluisce così in un progetto fotografico molto astratto e concettuale, in cui l'artista, nata a Hong Kong, cerca di trovare e restituire bellezza anche ove essa apparentemente non c'è.

"In realtà - evidenzia infatti - Singapore non mi è piaciuta: è troppo artificiale. Ma in fondo la città è come un elefante: tutto dipende dalla prospettiva con cui la si guarda. La coda, le zampe, le orecchie, gli occhi troppo piccoli rispetto al resto del corpo. Spesso è opportuno trovare il giusto canale, proprio attraverso lo strumento della fotografia, per cambiare l'immagine anche del medesimo oggetto".

Un canale, come sottolinea lei stessa, fondamentale per provare a cambiare anche una sensazione negativa e riuscire così a sopravvivere emotivamente.

Arrivano una mostra a New York ed una in Spagna ed una fase di transizione nella tecnica e nel linguaggio espressivo, all'insegna della sperimentazione.

L'ATTUALE PROGETTO FOTOGRAFICO ED ESPOSITIVO


La mostra è a cura di Chiara Reale. E' promossa dall'Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, gode del patrocinio morale dell'Istituto Confucio di Napoli, dell'Ambasciata Canadese in Italia e è realizzata in collaborazione con AICA Andrea Ingenito Contemporary Art Gallery. Una collaborazione creata proprio in seguito alla presentazione del libro “9_9” presso la sede di Capri lo scorso anno.

Per il progetto editoriale, edito da Skira, sono stati selezionati 123 doppi auto ritratti. In ogni doppio auto ritratto Kristin Man entra in una “mise-en-scene” che immortala se stessa in relazione con “l’altro artista” per esprimere l’essenza “condivisa” al momento del ritratto e l'idea di “una se stessa” come straniera e come artista nell'ambiente di “un altro”. 

Una galleria di doppi ritratti dell'artista in compagnia di personaggi celebri del mondo dell’arte e di giovani artisti, fra i quali Mimmo Paladino, Ferdinando Scianna, Mimmo Jodice, Piero Gilardi, Emilio Isgrò, Enzo Cucchi, Gianni Berengo Gardin, Michelangelo Pistoletto, Arturo Schwarz, Arnaldo Pomodoro, Luigi Mainolfi, Riccardo Dalisi, Lello Esposito e Sergio Fermariello.

Nell'esposizione trovano spazio anche foto e pannelli inediti, non presenti nel libro, cui l'autrice ha voluto dare evidenza, data l'intensità dell'incontro stesso.

"Per trovare il linguaggio che mi rispecchiasse - evidenzia Kristin - ho sperimentato circa 2-3 mesi. Non volevo si trattasse solo di autoritratti, nè di ritratti altrui, bensì che si ricostruisse il senso più profondo di un'identità, quella di me stessa in relazione agli altri. Volevo inventare qualcosa di nuovo, un nuovo modo di esprimersi, non volevo ricalcare le orme di qualcosa di già fatto".

In queste pose spira forte il senso del rispetto, quello che per Masullo non è legame di subalternità formale, bensì capacità di entrare in relazione con l'altro da sé, con il suo universo cognitivo ed emotivo. Capacità di entrare in punta di piedi nella sua esistenza.

Secondo quanto racconta Kristin, il suo desiderio è creare ed esplorare un senso di comune appartenenza  tra artisti ed anche rispetto ad una città che si è scelta quale patria adottiva, perchè "ci piace".

Il fil rouge tra vite ed ambienti è creato dall'arte, nelle sue multiformi espressioni, attraverso le quali sia lei che i suoi interlocutori esprimono la propria anima e riescono ad interagire, a entrare in contatto, con il mondo circostante.

Nella foto con Marco Fasano, l'artista entra piano nel suo spazio creativo, attraverso una finestra (entra nella sua casa, nella sua vita e nel suo universo artistico). Insieme, le due figure formano un arco ideale. La chitarra che Kristin sfiora lieve è sia punto di contatto tra i due sia momento di necessaria distanza, di riconoscimento dell'irriducibile alterità dell'altro, del suo mistero che va rispettato. La finestra, parimenti, è il luogo da cui entra la luce e da cui lo stesso Fasano trae ispirazione (per sua stessa ammissione, in base al racconto di Kristin, ha provato a comporre in parti diverse della casa, ma solo lì l'ispirazione arriva puntuale e non delude).



"Creare un'interazione - spiega Kristin - è fondamentale. Se non abbiamo un ricorso, un bel ricordo, un'amicizia, credo sia inutile fare una fotografia".

Nella foto con Mimmo Jodice viene rappresentata una perfetta complementarietà e similitudine tra universi espressivi e sensibilità.

Due fotografi sono immersi in un ambiente in cui la fotografia è protagonista. Tutt'intorno libri che parlano di questa arte, con alcuni titoli in evidenza. A fare da contraltare un tavolo nero dalla superficie lucida, in cui i due  è come si osservassero, al pari di come avviene per uno specchio, vedendo riflessa la propria immagine e, al contempo, la propria anima.

"Noi fotografi - spiega Kristin - utilizziamo gli occhi per gettare il nostro sguardo sul mondo. Il nostro scatto è un riflesso di noi stessi. Anche quando non appaio nelle foto, infatti, non sono mai del tutto assente. Una presenza di me stessa è sempre palpabile, anche perché quello scatto è frutto del mio sguardo. Non occorre che io appaia per esservi".

Nella foto con Jodice, Kristin muove un gesto protettivo nei confronti di colui che potrebbe essere concepito sia idealmente come padre che come maestro.



Con Sebastiano Grasso, critico d'arte e scrittore di racconti erotici, Kristin disegna un'interazione diversa dalle precedenti, dove trova spazio una sorta di paura, di ansia che si allarga sul viso e che le fa assumere un'espressione spaventata.

Grasso, infatti, impugna un tagliacarte, una sorta di stiletto, in grado di andare in profondità, di squarciare il velo del perbenismo, ma anche la corazza emotiva. lo schermo, che ognuno indossa quotidianamente, e lo punta alla gola della fotografa. Nella foto ad una sensazione ansiogena si accompagna un'atmosfera sensuale.



Il luogo di Grasso è in realtà, come sottolinea la stessa Man, un non luogo, perchè lui potrebbe "scrivere ovunque". Quindi lo strumento che deve accompagnarlo sempre, che ne rappresenta l'essenza, è la penna.

"E' fondamentale - ribadisce Kristin - che non solo loro si trovino a loro agio con me, ma anch'io con loro, all'interno del loro ambiente. E' necessario trovare la giusta distanza, che permetta di entrare in un contatto autentico, senza 'invadere' lo spazio vitale. Con Enzo Cucchi, ad esempio, ho studiato l'ambiente per ore. Poi quando l'ho visto ed ho notato il suo abbigliamento caratteristico ho deciso di tornare il giorno dopo, indossando a mia volta un cappello, simbolo di rispetto e di riconoscimento di importanza".

Ora Kristin sta lavorando ad un nuovo progetto fotografico, dove il mezzo di con-tatto sono i cellulari, emblemi di una nuova tecnologia e di una frontiera "altra" della comunicazione.





domenica 13 maggio 2018

La legge Basaglia: una riflessione 40 anni dopo

Compie quarant'anni la legge Basaglia, troppo riduttivamente ricordata come quella che ha segnato la chiusura dei manicomi.

Spesso ingiustamente accusata di essere "colpevole" di aver rimesso in libertà dei "pazzi" che poi hanno arrecato danno alla collettività con gesti sconsiderati e violenti.

Tacciata di errori e mancanze, di colpe, dovute alle falle di una struttura sociale dove troppo spesso la "produttività", intesa come surplus economico che l'individuo riesce a produrre ed a garantire nell'immediato, è l'unica misura del valore dell'individuo e dove si vale solo se si rappresenta e si offre qualcosa che è quantificabile ed ha un prezzo.

Invece, la Legge Basaglia è e fu artefice di un nuovo approccio all'individuo con sofferenza mentale e psichica. Un'approccio desanitariazzato, una prospettiva sociale dove si tentava di ridare legittimo diritto di cittadinanza e dignità alla persona in quanto tale.

"In base all'approccio in animo alla legge Basaglia - sottolinea il direttore del dipartimento di salute mentale della Asl Napoli 1 Centro Fedele Maurano - dove non c'è libertà non c'è cura. Quindi non si può fare salute mentale in carcere". E di conseguenza, in nessuna istituzione totale, secondo il termine coniato dal sociologo Erving Goffman.



Secondo la spiegazione di Maurano, fino al 1978 vigeva una legge, risalente al 1914, che aveva subito una lieve modifica nel 1965, in base alla quale ai cosiddetti "pazzi" non era riconosciuto alcun tipo di dignità e tutela.

La reclusione, di tipo non curativo e riabilitativo, bensì reclusivo, veniva ordinata anche per una lieve alterazione dello stato di coscienza, o ancora per motivi ereditari, per mettere a tacere chi faceva indagini e domande scomode o rispetto a chi veniva percepito come "diverso"  nello  stile e  nelle scelte di  vita.

"L'impegno a favore del miglioramento della qualità di  vita dei pazienti, attraverso un'implementazione dei  servizi -  continua Maurano - non fa notizia. Esistono ancora stereotipi striscianti  che associano la sofferenza mentale ad una vergogna da nascondere. Quello  che dovrebbe fare notizia,m in negativo, non è il sofferente psichico che, preso da delirio, accoltella la madre, bensì tutto il background di degrado, mancanza o insufficienza di servizi, scarsità di risorse e mancata valorizzazione delle competenze più adeguate, che ha permesso che una tragedia del genere potesse consumarsi. Attualmente l'approccio è sempre più sanitarizzato ed affidato quasi escludsivamente a medici ed infermieri. Sono insufficienti psicologi, antropologi,. assistenti sociali: in tutto poco meno di 30mila operatori".



A conti fatti, vi sono 20mila persone "in accompagnamento" e cura  a carico del Dipartimento di Salute mentale, tra servizi territoriali ed ospedalieri della ASL Napoli 1.

La sofferenza psichica, secondo l'approccio proposto da Basaglia, non è solo un "problema" della persona, di carattere sanitario, bensì dell'intera collettività e necessita di un intervento trasversale, di tipo sociale.

Attualmente, dunque, sembrerebbe che si sia fatto un deciso, e doloroso, passo indietro. Proprio per questo è importante denunciare, anche attraverso gli organi di stampa. Perchè, come ribadiscono gli organizzatori dell'incontro, dedicato ai 40 anni, anche recuperare la capacità di "dire", il coraggio delle cose dette, per quanto pesanti, dure e scomode, può avere un effetto dirompente al pari dell'impegno a costruire servizi davvero funzionali, cui venga destinata un'adeguata percentuale di risorse.

Per uscire dalle sabbie mobili di un approccio alla salute mentale basato sulla psicopatologizzazione occorre ascoltare, scambiarsi visioni, curare le relazioni, curare la sfera emotiva, come hanno ricordato gli addetti ai lavori. occorre rifuggire dai mezzi di contenzione e dall'applicazione coattiva della violenza.

STORIE CHE SI INTRECCIANO ALL'OSPEDALE LEONARDO BIANCHI

Dopo vent'anni dalla chiusura dei manicomi, , La Regione Campania ha autorizzato la vendita del Bianchi, affinchè la struttura possa essere "messa a reddito" ed i soldi ricavati possano essere destinati ai servizi ospedalieri e territoriali dedicati alla salute mentale.



La parte anteriore monumentale è previsto rimanga, invece, proprietà della ASL Napoli 1.

"Per molti - racconta il giornalista Francesco Romanetti che per 'Il Mattino' ha curato uno speciale dagli archivi dell’ex manicomio Leonardo Bianchi - entrare in questo ospedale psichiatrico equivaleva a morire anzitempo. Non a caso molte delle 60mila cartelle dei pazienti parlano di decessi".

In quei padiglioni, dove i pazienti erano divisi in "Tranquilli", "Sudici", "Agitati", "Furiosi" (e poi venivano gli ambienti dedicati alla chiesa ed all'obitorio), si poteva finire per molti motivi, alcuni futili, altri legati a mera discriminazione sociale, altri ancora per volontà dolosa di parenti ed antagonisti.

Bastava, ad esempio, come racconta chi quelle storie le ha vissute indirettamente o raccontate e denunciate, che alcuni parenti si mettessero d'accordo per far internare un loro congiunto ed impadronirsi così dell'eredità o del patrimonio. O ancora essere impotenti, ninfomani o omosessuali, dal "contegno" ritenuto puerile, inidoneo, o "femminile".

In manicomio finivano anche i cosiddetti "scemi di guerra": persone che, segnate dalla ferocia dei conflitti e dalla violenza, finivano per perdere il senno. O, al contrario, coloro che fingevano turbe psichiche per non fare il soldato ed essere arruolati.

Tante le storie di tristezza e malinconia.
Come la vicenda della "donna scimmia". Finita all'Annunziata a soli tre mesi, questa bimba non camminava nè parlava. A credere in lei, nelle sue potenzialità e nel suo riscatto umano possibile, un'operatrice che le insegnò a parlare e camminare, ma che, purtroppo, poi venne trasferita.



A quindici anni, la giovane si svegliò, di notte, in un letto trasformato in un lago di sangue a causa del primo mestruo.

Digiuna di spiegazioni, di figure di riferimento e presa dalla paura per l'accaduto, la poverina si mise ad urlare spaventata e fu ricoverata in manicomio, perchè reputata pazza. Manicomio dove trascorse quasi tutta la vita, fino a 62 anni, abbrutendosi, in uno stato di degrado ed abbandono. Spesso non si lavava nè vestiva e viveva accasciata a terra. il corpo, a causa dei tanti medicinali assunti affinché fosse sedata, si ricoprì di peluria. 

Da qui il terribile appellativo. Sta di fatto che quando la donna lascìo l'ospedale, benchè ormai in là con gli anni, appariva carina.

Come canta Caetano Veloso "visto da vicino nessuno è normale". Molto pericolosa, poi, è quella finta vicinanza che allontana, alimentando la diffidenza.

Alla dialettica tra normalità e pazzia è dedicato il corto, realizzato da Alessandra del Giudice e Giovanna Amore di Napoli città solidale "Io (non) ci metto la faccia",https://www.youtube.com/watch?v=lnmLM1P_ie4, che racconta storie di disagio ma anche di riscatto esistenziale e di come sia facile "scivolare" nella follia ed essere etichettati come "matti", perdendo la fiducia, la considerazione ed il rispetto da parte dei propri interlocutori.

Al confronto Com'è cambiata l'informazione a 40 anni dalla legge Basaglia, su lessico, temi legati alla salute mentale e deontologia anche Ottavio Lucarelli, presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Campania, il consigliere Vincenzo Esposito, il direttore dell’Emeroteca Tucci Salvatore Maffei (a lungo giornalista di giudiziaria per importanti quotidiani e riviste nazionali), il presidente di Gesco Sergio D’Angelo che ha partecipato al processo di dismissione dagli ospedali psichiatrici e al reinserimento degli ex internat,; e il sociologo visuale Marco Rossano, organizzatore del Premio Cinematografico Fausto Rossano dedicato alla salute mentale.

La chiave di volta, forse, sta nel passaggio dall'emarginazione, intesa come una ferita, una frattura, una cesura, un'espulsione (dal gruppo di riferimento e dalla collettività), ad una rimarginazione possibile, basata sulla tutela della dignità e sul rispetto del diritto di cittadinanza, su un processo di inclusione a 360 gradi.



martedì 8 maggio 2018

Senza confine: immagini per superare i propri limiti nell'incontro con l'altro da sè

Sarà visitabile fino a sabato 12 la personale di Viviana Rasulo Senza confine, a cura di Chiara Reale, ospitata da Castel dell'Ovo - Sala delle Terrazze.

 Una mostra che, attraverso le immagini che colgono frammenti di vita e di usi e costumi, intende esplorare se stessi in rapporto all'altro da sé, fisico, geografico e sociale.

Il confine, in questa mostra, si annulla, diventando percorso, ponte, sentiero, come direbbe il pedagogista Andrea Canevaro, e non già cesura, muro, barriera.



Una mostra che gettando l'occhio da sé verso l'altro vuole proporre, quindi, il superamento di quelle convinzioni su di sé e sul proprio potenziale interlocutore che sembrerebbero ostacolare il processo di  reciproco rispecchiamento e riconoscimento, impedendo di instaurare uno scambio di visioni, emozioni e suggestioni davvero autentico.

IL PERCORSO ESISTENZIALE ED ARTISTICO

Una passione, quella per la fotografia, che affonda le radici lontano, radicandosi poi, progressivamente, all'interno dell'esistenza dell'artista.



"Il mio papà - racconta  Viviana - era un appassionato di fotografia. Mio nonno, invece, lavorava per l'Aviazione ed aveva acquistato un banco da ottico portatile. Sin da piccola, quindi, ho 'masticato' l'arte della fotografia. Dopo che mia figlia è cresciuta ho deciso di riprendere a studiare ed a sperimentarmi in maniera professionale"

 Tra i maestri e le guide che le camminano al fianco in questo percorso di scoperta, riscoperta e crescita: Marco Monteriso, Luca Bracali, Robert Herman, Silvya Plachy, Richard Tushman.

"Il mio scopo - continua l'artista - era trovare un nuovo modo di vedere, il mio. Le mie fotografie, in tal senso, costituiscono una sorta di analisi del reale. Ne sono  protagonisti, ad esempio, i nomadi e le etnie in estinzione.".



Dopo  la significativa esperienza con National Geographic, Viviana Rasulo decide di girare l'occhio della macchina fotografica verso se stessa.

Ne nascono una serie di autoritratti, in cui Viviana non nasconde, anzi mostra con orgoglio, le proprie imperfezioni fisiche, proprio quelle che parlano di lei e del suo percorso, con l'intento di "indagare su se stessa".

In questo modo le foto diventano "soggettive", sposano, in maniera mobile e multiforme, un punto di vista, diventano un modo per parlare della propria vita e non solo per osservare quella altrui.

Un progetto per immagini, autoprodotto, la cui linfa viene tratta proprio dal  tessuto vitale di Viviana Rasulo, presentato presso la New York School of Visual Arts.



In questo modo la macchina fotografica apre ed esplora quello che si cela dietro porte "identitarie" chiuse. Come una lama di luce si insinua dietro le palpebre serrate e dona nuovi sguardi. Scandaglia gli anfratti dell'anima ed i riverberi sul corpo.

LA MOSTRA

La mostra è  il  risultato  di una silloge di scatti, raccolti in viaggi effettuati dal 2014 in poi.

"Lo scopo di questa mostra - non è quello di mostrare le foto migliori tecnicamente, bensì dialogare per immagini sul tema del limite, della marginalità, dell'estinzione, nello sforzo di andare oltre l'apparenza e l'etichetta. Un modo per aprire la mente".



Il racconto per immagini ha molti punti di contatto anche con un'analisi socio-antropologica che indaga i volti, gli usi e i costumi di tante culture.

Trait d'union il tentativo di cercare qualcosa in comune e che accomuni, secondo quanto ribadisce l'artista, al di là delle differenze evidenti e apparenti e della superficie, della forma che cambia e sembrerebbe rendere distanti ed inconciliabili.



Perché, ognuno, rispecchiandosi in quegli occhi, in quei visi ed in quei gesti potrebbe "individuare il proprio legittimo modo di vivere, di essere 'umani', arricchendo, il proprio sguardo".

"Sono stata in Africa spesso per lavoro, essendo una pediatra - racconta l'artista  - e mi ha colpito molto il loro modo di vivere basato sulla condivisione, pur in contesti estremamente poveri. Condividere è un modo per sopravvivere.

La vita, che lotta e vince nonostante tutto. Ecco il senso di alcune macchie di colore che emergono con forza da sfondi scuri, come nel lavoro sulle migrazioni.



Dominano, in numerose foto, i colori della terra, come l'ocra e l'arancio, che si ritrovano, intessuti e frammisti alla luce, nei fili intrecciati delle vesti dei Teranga del Senegal, noti per la loro ospitalità.

Colori vivaci e lussureggianti che caratterizzano anche il paesaggio.

Le fotografie, dunque, per Viviana divengono un modo per esporsi, per donare e donarsi, per scambiare.

Le immagini divengono flussi, fiumi in piena di emozioni e parole, che si liberano e danno spazio ai sentimenti.

Immagini che permettono alle emozioni di sconfinare, ed andare verso l'altro in maniera circolare.

Un modo per essere "sconfinanti", senza invadere l'altro, ma rispettandone l'irriducibile diversità ed alterità, la legittima distanza, l'insondabile mistero.

 Protagonista, dunque la differenza, ed insieme la complementarietà, culturale.

"Le foto - evidenzia Viviana - rappresentano un  insieme di etnie che appartengono a luoghi diversi. Insieme costituiscono qualcosa di magico e meraviglioso. E' questo un modo per darsi il permesso per 'sconfinare', all'insegna del rispetto e dell'accoglienza".







lunedì 7 maggio 2018

Alla scoperta di Bagnoli con la Jane's Walk Naples

Dopo l'esperienza romana della Jane's Walk, dedicata al quartiere di San Lorenzo, ai suoi tanti volti, identità, stratificazioni e destinazioni d'uso, questa manifestazione, sabato 5 maggio, è giunta a Napoli.



Non a caso questa prima edizione è stata dedicata al quartiere di Bagnoli, posto sempre sul ciglio del cambiamento, sospeso tra tanti progetti di riqualificazione mai attuati. In attesa di un riscatto mancato o perennemente in ritardo. Il cui nome viene periodicamente tirato in ballo per accendere o rinfocolare rivalità, scontri politici e campagne elettorali.

Quattro le tappe: il pontile di Bagnoli, teso tra il mare, quegli scogli neri che a viva forza hanno compiuto la "loro" bonifica, attirando su di sè parte di quel catrame che infestava le acque, e gli scheletri delle ciminiere. Tra i nuovi lidi e i detriti, i cumuli, le immondizie di ciò che è stato e che colpevolmente giace ancora lì, ammassato e dimenticato.

La piazzetta, cuore pulsante del quartiere e centro di aggregazione identitaria e relazionale. Di quella cittadinanza attiva, che sa prendersi cura del proprio quartiere, battendosi per una vita a misura ed a ritmo d'uomo, con al centro la valorizzazione del ruolo del quartiere stesso e dell'isolato e la ribellione contro il processo di massificazione, secondo l'ottica propugnata da Jane Jacobs, attivista ed autrice del libro Vita e morte delle grandi città, saggio sulle metropoli americane del 1961.


Ed ancora la Masseria Starza, ex borgo Gesuita e sede di un noviziato, il luogo più antico del quartiere, che conserva alcune testimonianze di un 'epoca che fu, tra l'enorme torchio, ricavato da un albero del '700, il serraglio, il forno e l'edicola votiva dedicata al patrono, San Luigi. Un quartiere, nel quartiere, in qualche modo fuori dal tempo, come modus vivendi.
Si chiude con La ex base NATO, una città inserita nella città con la propria chiesa tuttora attiva, la scuola, il cinema, la piscina ed il chilometrico tunnel sotterraneo, destinato agli uffici segreti, a custodire il caveau degli esplosivi ed una serie di apparecchiature dedicate alle comunicazioni ed alla conservazione di dati top secret.


UN  FOCUS SULL'ITALSIDER TRA PASSATO E PRESENTE E SULLA MASSERIA SFORZA


A parlare dell'Italsider, per riabilitarne la memoria, dato che, come sottolinea "vi sono tanti dati inesatti che circolano" è l'ex lavoratrice e scrittrice Aurelia del Vecchio.
E' lei a dire come, dopo tanto tempo torni a guardare lo scheletro delle ciminiere, cui di solito tutti gli ex operai preferiscono dare le spalle, per non ricordare la morte imposta ad un polmone industriale, che ha ceduto il passo ad un processo di "desertificazione", ad un quartiere dormitorio in degrado e con un tasso progressivamente crescente di microcriminalità.
Dal ricordo riemergono le attività della grande fabbrica, una delle più moderne, produttive ed ecocompatibili d'Europa e il top del gruppo Italsider.
"Non si può equiparare l'Italsider all'Ilva di Taranto - sottolinea - . L'Ilva è rimasta ferma al 1965 . L'Italsider ha subito varie ammodernamenti".


L'impianto era stato anche ampliato con un nuovo altoforno e vantava una produzione di eccellenza, secondo quanto viene rievocato, ma era stato costretto a limitare l'utilizzo dei macchinari ad una sola linea di produzione.

Attorno alla fabbrica, ossatura economica della città e non solo, ruotava la cittadella degli operai, cuore pulsante anche a livello politico e di fermento culturale, ed il circolo Ilva, che da spazio ricreativo aziendale divenne polo di aggregazione per tutta la città, per le mostre pittoriche e gli eventi culturali e cinematografici, attirando anche l'attenzione del poeta Ungaretti.
La memoria storica di quegli anni è conservata anche in una foto antica che riproduce un carro della vecchia Festa di Piedigrotta, all'interno della quale appaiono gli operai del reparto Carpenteria.
Dopo la tappa in piazzetta, dove si ricordano alcuni frammenti dell'infanzia e dell'adolescenza di Bennato e si resta incantati dal profumo dei dolciumi che si spandono nell'aria domenicale, si passa all'antico borgo gesuita della Masseria Starza. In parte il tempo sembra essersi fermato o pare di trovarsi in una dimensione sospesa, a metà tra passato e presente.

La masseria era anticamente recintata e in quel che resta dell'arco dove era incastonato il portone si può notare lo spazio dove era allocata la campana che scandiva la giornata dei contadini ed annunciava imminenti pericoli.

Sono visibili anche i resti di un forno e del serraglio un luogo recintato dove venivano coltivate piante ed ortaggi particolarmente delicati, per proteggerle dall'attacco degli animali.
Il borgo è dedicato a San Luigi ed è presente un'edicola votiva. Una volta all'anno un bambino veniva calato attaccato ad una fune, simulando il cosiddetto "volo dell'angelo". Si trattava solitamente del figlio di famiglie che avevano fatto un voto e che, in questo modo, ringraziavano per la grazia ricevuta.

Il torchio che serviva a pestare l'uva era ricavato da un albero centenario, di grandi dimensioni. Delle pietre ne regolavano l'alzata e la discesa, attraverso un effetto leva.
L'ultima tappa è quella relativa all'ex base NATO. Una città costruita alla lce del sole cui fa da contraltare un'altra area che si snoda parallelamente per chilometri nel sottosuolo, allestita a scopo strategico, militare e difensivo.

Oggi la base ospita alcune manifestazioni organizzate da enti del Terzo Settore, come la Festa di primavera, e i campi dove si allena una squadra di rugby giovanile.
Un successo quello di quest'iniziativa, che testimonia la voglia della cittadinanza, di riappropriarsi, in modo trasversale della conoscenza e della fruizione di quartieri noti e meno noti.


** Le foto sono di Francesco Minopoli



venerdì 4 maggio 2018

Stiamo calmi: Saverio Raimondo illustra il suo vademecum per fare amicizia con l'ansia

Mentre ci si dibatte tra destra, sinistra e un centro ondivago, alla ricerca di  un equilibrio "dinamico", forse instabile, ma qualcuno spera possibile, o  ci si appella alla necessità di nuove elezioni improrogabili, al grido  di "Si voti chi può", c'è chi la soluzione sembrerebbe averla già trovata.

Si tratta di Saverio Raimondo, stand up comedian,  che individua  una nuova alleanza  partitica  possibile, in grado di sfondare il tetto del sospirato 40%, , tra depressi e  ansiosi. Uniti dal fil rouge del catastrofismo, le loro paure sono complementari.


Gli ansiosi infatti, non vogliono intraprendere nessuna azione, come ricorda il comico, per  paura che tutto possa finire. I depressi, invece, ritengono che  nessuna azione possa essere ormai  utile e salvifica perchè tutto è ormai inesorabilmente avviato alla fine.

Ne viene fuori,  secondo l'autore di Stiamo calmi. Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare l'ansia, edito da Feltrinelli, un mondo  non più spaventoso, bensì spaventato, dove l'ansia, forse, permetterà  di rendere tutto più sicuro, tenendolo sotto ferreo controllo.

Ed ecco, dunque emergere la vera natura, l'autentica cifra stilistica, dell'ansia che, lungi dall'essere un freno alla vita ed alla vitalità umana, è invece il vero motore del progresso, il centro propulsore dello sviluppo umano.

Lo sa bene lo stesso Raimondo, in qualità non solo di depresso di lungo corso. ma anche di erede di una folta genia di ansiosi.


Un lignaggio che lui espone con orgoglio, dato che ha , come lui spiega in questo sagace testo, illustri e geniali rappresentanti storici.

Da Cristoforo Colombo,  che stressa e mette l'ansia a tutti per trovare i modi ed i mezzi idonei a partire alla scoperta di quelle che lui crede essere Le Indie, per poi stressare nuovamente chiunque gli capiti a tiro, onde riuscire a ritornare "in tempo" (ma in realtà si tratta di  un  uno pseudo.ansioso, perchè un vero ansioso probabilmente non sarebbe mai partito);  a Leonardo Da Vinci, che avrebbe inventato la maggior parte  degli strumenti, che  hanno poi rivoluzionato la storia dell'umanità, spinto solo dall'ansia.

A  chi accusa gli ansiosi di essere la causa dell'ascesa al potere di Trump, in terra nordamericana, prontamente Saverio  Raimondi, argutamente ed  acutamente, ribatte che, come memento storico,  è bene rimarcare la  differenza tra un ansioso ed un nazista: "Il nazista -  sottolinea - è  quello che apre il gas. L'ansioso  è  quello che  lo chiude!  Non solo: si sveglia e va a controllare numerose volte durante la notte, per sincerarsi che il nazista, a sua insaputa, non l'abbia riaperto!"

Come ribadisce l'autore ciò che distingue la  paura  dall'ansia  è una sottile  ma tenace linea rossa, che gioca a dadi con il  senso di  realtà.

La paura, infatti, è quel sentimento realistico di allarme ed angoscia che ci prende quando un'auto sta per investirci. L'ansia, invece, sembrerebbe essere quel malessere sottile, che si insinua in noi e cresce esponenzialmente, facendoci sudare freddo, quando veniamo presi dal timore che, pur attraversando sulle strisce pedonali, un'auto accidentalmente, o per negligenza, possa arrivare all'improvviso ed investirci. Il bello è che non siamo in  procinto  di  attraversare nessuna strada!




Ma c'è di più. Raimondi, infatti, propone un glossario di parole, rivisitate in  base al gergo tipico dell'ansia. Ne  nasce  un mix  di  definizioni  esilaranti,  che  hanno come magico  effetto  apotropaico,  quello di sciogliere  i nodi allo  stomaco e "smitizzare" quella sorta di totem che è appunto l'ansia.

La presentazione del libro, che ha visto come location partenopea proprio la Feltrinelli di Santa Caterina a Chiaia (la prossima è in programma a Firenze il 18 maggio alle ore 21.00  nella sala del Caffè letterario Le Murate in piazza delle Murate), diviene così una sorta di spettacolo godibilissimo, in cui l'autore è il moderatore (nell'appuntamento partenopeo è toccato a Stefano Pisani autore televisivo e giornalista scientifico) esplorano i  vari volti  di questo malessere "umano troppo  umano".




Capita così che, in una sera  primaverile,  mentre  si  è appena finito di fare l'amore  e un venticello fresco entra dalla finestra, accarezzando le schiene nude dei due amanti, lei, dolcemente, sussurri al suo partner, che giace ebbro di emozioni tra le lenzuola, "Ti amo" e lui comprenda, per una sorta di legge del contrappasso, "Biopsia".

Ma niente paura... Come si potrebbe dire, parafrasando Truffaut "Non drammatizziamo... E' solo questione di ansia!"