mercoledì 26 settembre 2018

Sulla mia pelle: un film che dilania le coscienze

Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, è un film che ti arriva dritto non al cuore ma allo stomaco, come un pugno, e che fa girare più velocemente le sinapsi cerebrali, quelle che portano lo spettatore a riflettere su un caso di ordinaria follia e ad immedesimarsi con un incubo che si dipana in appena sette giorni, chiedendosi ossessivamente per tutti i 100 minuti del film "E se fosse capitato a me?".

Ed è per questo che quello che accade sulla pelle di Stefano Cucchi ognuno lo sente riverberarsi sulla propria, mordendola e lacerandola...


Alessandro Borghi, che non sembra nemmeno lo stesso individuo che ha interpretato il protagonista della Napoli Velata di Ozpetek, incredibilmente dimagrito, quasi emaciato, presta il viso ed il corpo, in un modo sorprendentemente verosimile, a Stefano Cucchi.

Un viso ed un corpo che verranno martoriati. Schiaffi, pugni, calci, inferti da chi lo aveva in custodia e avrebbe dovuto farsi garante di tutelare la giustizia.

Calci dati ad una persona caduta ormai a terra a cui non erano state tolte nemmeno le manette, così forti da rompergli due vertebre.

Qual è la colpa di Stefano? Quella di avere con sé dosi di erba e di cocaina pronte per essere smerciate. Quella di essere un drogato ed  uno spacciatore,  un piccolo spacciatore.

Lui rifiuterà quest'accusa, quella di spaccio, anche se verso la fine il docu-film rivelerà i suoi più profondi timori e con essi la verità, cioè che  in casa nasconde diverse dosi pronte per essere spacciate.

La sua colpa è quella di aver cucito addosso un'etichetta ed un destino già segnati, quelli di deviante, di reietto, di emarginato e di rifiuto della società.

Quello che sta dalla parte sbagliata, tra i cattivi, che non può essere riabilitato, che probabilmente non merita nemmeno quest'opportunità.

Quello di chi non rispetta la divisa, che se ne prende gioco, che fa del male, responsabile di aver messo sulla cattiva strada tanti ragazzini, addirittura corresponsabile della loro morte.



Sono questi gli occhi con cui chi lo arresta lo guarda: occhi di chi vede in lui qualcuno che non merita la parola, che sfida l'ordine costituito, qualcuno di marcio ed irrecuperabile.

Chi lo picchia è chi sente che troppi non rispettano la divisa che i tutori dell'ordine indossano e quindi essi stessi, quando si trovano di fronte il cosiddetto "pesce piccolo", ma nel loro sentire colpevole, di quella divisa e dei poteri che conferisce fanno abuso e scempio.

Come reagisce Stefano? Stefano sembrerebbe che rifiuti ostinatamente, e a più riprese, di chiedere aiuto, anche quando gliene viene data la possibilità.

Si chiude a riccio, forse perché in tutti coloro che rappresentano le varie facce del sistema non vuole e non può più credere. Forse perché ritiene, almeno inizialmente, di potercela fare da solo o ancora, forse, perché in fondo al suo cuore anche lui pensa di non meritarla una seconda possibilità di riscatto, per le delusioni inflitte a chi gli vuole bene e gli è caro.



La madre che in un primo momento appare quasi contenta di quella notte in gattabuia, che forse farà mettere la testa a posto al figlio, dandogli una lezione.

Il padre, che ci tiene sempre a fargli sottolineare, di fronte ai suoi interlocutori, che lui è il "figlio del geometra", quasi in un tentativo di riabilitazione della sua reputazione sociale.

E quella sorella che non ha mai tempo per lui, che è la "sorella più impegnata d'Italia".

Su di lui e sulle sue scelte gravano quei 15 anni in cui ha contato solo lei, la droga.

Stefano, quindi, sceglie di rifiutare l'aiuto. Cerca solo il contatto con il padre durante il processo. Ne cerca l'abbraccio e si scusa per aver fatto ancora una volta "caciara" dicendogli che sarebbe stato meglio se fosse rimasto a dormire da loro quella sera, dando una sterzata al suo destino.

E poi cerca disperatamente una voce con cui parlare nel buio e nell'isolamento delle varie celle che abiterà, mentre il suo corpo soffre e cede.



Cerca la voce di quello che lui percepisce come un suo pari, un suo simile, un altro essere umano. La cerca per non impazzire di solitudine e sofferenza, continuando a parlare da solo. Ed in questo ricorda il novello Robinson Crusoe di Cast Away che dà volto e voce ad un pallone, ribattezzandolo Wilson

Che sia il detenuto albanese che gli dice che ha subito capito che l'hanno picchiato e che "il dolore è traditore: esce piano piano" al ragazzo che gli rivela che per ottenere risposta non deve rivolgersi alla polizia carceraria con il nome di guardie bensì di assistenti.

Fino ad arrivare all'ultimo: Marco, che gli consiglia di cercare qualcuno di fidato da mandare a casa sua per far sparire "la roba".

Stefano cerca un contatto autentico ed alla pari e, anche nel rifiutare le poche cure di facciata che gli vengono offerte, non è di curarsi che si sta rifiutando, come specifica, bensì tenta di realizzare l'esatto opposto: veder riconosciuti i suoi diritti,  riappropriarsi di una possibilità di scelta ed autodeterminazione, rappresentata dalla richiesta di colloquiare con il suo avvocato.

Stefano Cucchi era un  drogato ed uno spacciatore, un piccolo spacciatore, ma la nostra legge dice che il momento della riabilitazione sociale dovrebbe sopravanzare quello della repressione carceraria.

Stefano Cucchi era un drogato ed uno spacciatore ,un piccolo spacciatore. Ma era anche e soprattutto un essere umano, figlio e fratello di qualcuno, componente di una famiglia normale, medio-borghese. Meritava di essere incasellato solo nella categoria angusta degli scarti della società?

Stefano Cucchi era un drogato ed uno spacciatore, un piccolo spacciatore. Ma, benché lo Stato detenga il monopolio dell'uso legittimo della violenza, come ci ricorda  il sociologo Max Weber, fino a che punto questa violenza può essere esercitata senza che l'uso diventi abuso e violazione dei diritti umani, tale da parlare la lingua della tortura?

Dubbi  che opprimono lo spettatore fin dai primi minuti di visione della pellicola... Ed è alle coscienze di ognuno, al di là ed  al di fuori di ogni tribunale, processo e risarcimento, che  è chiesto di immergersi in una profonda e dilaniante riflessione...



sabato 22 settembre 2018

Vincenzo: riscattarsi si può


Vincenzo  è un  mediometraggio scritto, diretto e interpretato da Antonio d'Avino in arte Marco J.M.



Nella pellicola, realizzata senza fini di lucro e interamente autofinanziata da “Juna e Marco Arte” e prodotta da “OXEIA – L'isola dell'arte”, sono nevralgici i tema del bullismo, del recupero giovanile e della violenza di genere. Dalla realizzazione di questo film è nato anche un sito (http://www.vincenzothemovie.com/), con backstage e curiosità sul cast e la produzione.
Vincenzo ha  15 anni e vive in un contesto difficile. La nonna cerca di crescerlo come meglio può e di tenerlo lontano dalle cattive compagnie redarguendolo, per non fargli fare la stessa fine del padre, in stato di carcerazione.



Il  “capobranco” della compagnia è Peppe, che sta uscendo con una ragazza,  ma è proprio in quel momento che avviene il cortocircuito.

“Peppe – spiega Antonio D’Avino, in  arte  Marco  – sente che sta perdendo il rispetto e la considerazione del branco, perché si sta facendo ‘fare fesso’ dal sentimento. E’ per questo che decide di passare la sua ragazza al gruppo, come si farebbe con una sigaretta o un cane”.
La violenza  nasce da quel momento in cui si insegue una falsa idea di rispetto, un concetto distorto e  pericoloso.



A quella “spedizione” prende parte anche Vincenzo che, anche se non parteciperà alla violenza in sé, sarà reo di non essersi opposto al perpetrarsi delle atrocità ai danni di Serena.

Per lui, però, non si apriranno le porte  del carcere, ma  quelle più confortanti e piene di speranza di una comunità di recupero, dove dovrà svolgere, per otto  mesi,  un percorso di rieducazione.
In questo periodo, attraverso una presa di consapevolezza  progressiva, Vincenzo cambierà, o forse diventerà finalmente se stesso. A supportarlo gli operatori sociali e i libri, attraverso i quali gli raccontano la loro vita e quella degli altri, ed in fondo la sua stessa, grandi autori, come ad esempio  Pasolini. In quei libri Vincenzo ritroverà la sua sofferenza, il suo stesso tormento interiore e l’impatto duro e crudele con  i pregiudizi provenienti dall’esterno.



Dall’insieme, dall’impasto, di questi elementi emergerà dal suo cuore la consapevolezza delle sue responsabilità, la coscienza che non basta astenersi dal compiere un’azione per non essere colpevole.

Ecco perché comincerà a scrivere alcune e-mail a Serena, la vittima, per raccontarle le sue giornate e chiederle perdono.

Un perdono che , spesso, non è però possibile ricevere perché se c’è chi può intraprendere una nuova vita, grazie alle nuove consapevolezze maturate, c’è anche chi invece resterà inchiodata per sempre in un frammento di tempo capace di congelare un’intera esistenza, come quelle ferite che “anche se si rimarginano , tu sai che ci sono, perché rimane lo sfregio e quando le sfiori con le dita fanno e faranno sempre male”.



Dalla  finzione scenica alla realtà il passo è  breve in questo caso.

“Il film – sottolinea il regista Antonio D’Avino, in arte Marco – vuole essere una testimonianza di come si possa non omologarsi al pensiero unico. Indica un percorso possibile sul come emanciparsi e superare il disagio  sociale attraverso  gli strumenti culturali, che non sono però  applicabili e sufficientemente solidi se non vi è  a monte il sostegno delle istituzioni, anche di natura economica, in manieria tale da poter creare concrete opportunità lavorative ,  tali da non far cedere i giovani alla mentalità del guadagno facile”.

A  fargli eco Mariarosaria  Alfieri, presidente dell'associazione culturale CriminAlt: “Attualmente -  ribadisce – i ragazzi vivono una condizione di anestesia emozionale, amplificata dall’azione dei social network. Riescono, a volte inconsapevolmente, ad operare una dissociazione emozionale, provando un’emozione ma esplicitandone un’altra e nel tempo non riescono più a gestire questa frattura”.

L’associazione, secondo quanto racconta la presidente, lavora su progetti e campagne di prevenzione, di tipo capillare, puntando sul lavoro di rete.

Il target per eccellenza sono le scuole: ragazzi che frequentano corsi di diverso ordine e grado, dalla terza elementare agli ultimi anni delle superiori.

“In un anno  - prosegue Alfieri – abbiamo incontrato circa 5mila studenti. La domanda ricorrente  è ‘come si fa a dire di no se non si vuole  essere esclusi dal gruppo?’ "

Una domanda che  ha in sé una  possibile parabola discendente caratterizzata dalla  disperazione  individuale  e collettiva: dal  disagio familiare e della persona, fino al  crimine, passando  per l’esperienza deviante.

Come sottolineava Peppino Impastato,  che viene citato come esempio  e  monito, le persone  devono  essere formate  al bello, perché attraverso il bello  si  può  reagire all’omertà, alla  rassegnazione ed alla violenza.

Uno sguardo  ed un orecchio volti al bello, che vengono sostenuti anche dalla colonna sonora originale del film, una musica maturata  nelle coscienze,  capace di tradurre  in  note le  emozioni e  di essere  commento  e sottolineatura  ai momenti  dolci  o  aspri  della pellicola.

Anche Laura Russo, presidente di Telefono Rosa Napoli, sottolinea come sia importante cogliere i campanelli d’allarme della violenza, lavorando tempestivamente  sul disagio e  attivando  circuiti  di  prevenzione  e  un  punti di  ascolto  per  uscire  dal circuito della  violenza.

Telefono rosa, nato nel  1988 a  Roma  e nel 2010  a  Napoli, è un canale che riceve le richieste d’aiuto contro la violenza  fisica,  psicologica, economica e di stalking  ed  attiva una vera e propria rete  di protezione,  secondo  quanto  evidenzia  la referente.

Un lavoro,  di squadra, quello della pellicola Vincenzo, basato sulle competenze e sulla fiducia, tale da far emergere  il bello dell’arte  e l’arte  del bello.

Trentadue attori, 606 ciack, 757 minuti di riprese, 5 location.

Un plauso va a tutti i giovanissimi attori dell’area vesuviana, formati dall’Accademia Vesuviana del Teatro e del Cinema diretta dall’attore Gianni Sallustro.

martedì 18 settembre 2018

Violenza contro le donne: un percorso di contrasto ancora tutto in salita

C'è un trait d'union tra la mentalità mafiosa e quella che sostiene la violenza di genere: la logica dell'assoggettamento di un altro essere umano, una condizione coattiva di subalternità da cui trarre vantaggio.

Una soggezione innanzitutto psicologica che si nutre di un misto di dipendenza economica e di un appello a non "sfasciare" la famiglia.

Per uscire da questa logica deviante è necessario agire sui due poli della relazione: la vittima dell'abuso, che non deve essere concepita come un fastidio, ma come un'opportunità di verità e giustizia, come sottolineano gli addetti ai lavoro.

Mentre sull'uomo maltrattante bisogna attivare un processo su due versanti: quello penale e quello amministrativo, di riabilitazione e rieducazione (in cui una motivazione ad intraprenderlo seriamente potrebbe essere costituito anche dalla prospettiva di un'eventuale sconto di pena).

Attualmente, secondo i dati, in Italia circa il 25% degli omicidi sono classificabili come "di genere" e questa caratterizzazione, secondo gli addetti ai lavori, è dovuta al fatto che il partner non accetti la fine di una relazione concepita come di tipo proprietario.

Si tratta, dunque, di un problema culturale e relazionale, come sottolinea il magistrato Fabio Roia nel corso dell'incontro partenopeo del 14 settembre scorso "CRIMINI CONTRO LE DONNE. POLITICHE, LEGGI E BUONE PRASSI – INFORMAZIONE E MANIFESTO DI VENEZIA", di chi non sa rapportarsi e rispettare la differenza di genere.



Sempre secondo gli esperti, circa il 10% delle donne che subisce abusi non sa di essere vittima di violenza.

Vi sarebbe, dunque, un problema alla radice legato alla decodifica culturale, dove tutto è consentito in nome dell'indissolubilità della famiglia.

Un problema radicato ed operante, purtroppo, secondo gli esperti, anche nello stesso apparato istituzionale, spesso incapace di:

 - ascoltare e non giudicare, non porre le donne di fronte a pregiudizi di tipo conservativo della famiglia

 - mettere in atto un vero percorso trattamentale che diminuisca l'alto rischio di recidiva, facendo comprendere il profondo disvalore del comportamento violento agito.

Attualmente, in base ai dati forniti, il 77% delle vittime di stalking è donna ed è donna anche il 92% delle vittime di maltrattamento.

Secondo la Convenzione di Istanbul (2013), recepita dalla legge 19/2013,  è necessario evitare forme di vittimizzazione secondaria, aspetto che imporrebbe un ribaltamento dell'attuale procedura: la donna dovrebbe essere lasciata a casa con i figli e l'uomo, in base alla gravità degli atti compiuti, dovrebbe essere interdetto dai luoghi da lei frequentati (divieto di avvicinamento e ordine di avvicinamento) o soggetto a regime carcerario, con l'attuazione di misure cautelari gravi.



Secondo gli addetti ai lavori, il problema della presenza e dell'assenza di un ascolto attivo e di un sentimento di accoglienza nella relazione di cura e presa in carico non sarebbe legato ad una comune o differente identità di genere, capace aprioristicamente di ispirare vicinanza ed empatia, bensì all'interiorizzazione eventuale, da parte delle donne stesse, di una cultura maschilista, tale da portare chi ascolta a sottostare ad una serie di stereotipi e pregiudizi, laddove la donna denunciante non rispecchi la rappresentazione sociale di persona dai costumi morigerati.       

Un'ottica limitata e limitante che sembrerebbe possibile eradicare solo attraverso un processo di professionalizzazione, perchè "la mancanza di formazione, l'approssimazione ed il pressapochismo, minano alle radici lo Stato di diritto".

Un pericolo è in agguato, secondo gli esperti, nel processo di rieducazione di un uomo maltrattante: infatti, laddove l'operatore non fosse adeguatamente formato, si potrebbe andare incontro alla soggezione a processi di manipolazione, messi in atto dal soggetto maltrattante al fine di ottenere una riduzione della pena.       

Quella della violenza di genere, invero, è una materia delicata che sconta il fio di ritardi atavici, dato che prima del 1996 gli abusi domestici erano classificati come componimento di dissidi privati ed inseriti nei reati contro la morale e solo dopo il '96 divengono reati contro la persona.

Poi arriva, solo nel 2009,  la legge 38 contro lo stalking e nel 2013 la 19 che recepisce la Convenzione di Istanbul.

Per combattere la violenza di genere appare nevralgica la collaborazione attiva  con le forze di polizia giudiziaria. 

Numerose le tappe nevralgiche: nel 2009 arriva la Convenzione tra il Ministero per le Pari opportunità e il Comando generale dell'Arma dei Carabinieri, in raccordo con il Reparto di Analisi criminologica.

Nel 2010 è il momento della Rete Attiva, presso tutti i comandi provinciali investigativi, comprendente 300 unità, che agisce in raccordo con la Sezione Atti persecutori.

Nel 2016, poi, viene siglato il protocollo d'intesa per realizzare uno spazio dove effettuare le cosiddette audizioni protette.

Attualmente, in Italia ci sono 105 "stanze tutte per sè", ubicate presso il Comando dei Carabinieri (quella partenopea è a Capodimonte).

Ma il percorso da compiere appare ancora lungo e tutto in salita.
                   

Cyrano de Bergerac: storia d'amore e dolore senza tempo all'Aperia della Reggia di Caserta

L'Aperia della Reggia di Caserta chiude la stagione in bellezza con la rappresentazione del Cyrano de Bergerac, una delle storie d'amore e di dolore più belle di tutti i tempi.




Un lavoro messo in scena dalla Compagnia Controtempo theatre, fondata e diretta da Venanzio Amoroso, Danilo Franti e Lilith Petillo, con la regia di Roberto Andolfi.

"Per mettere in scena quest'opera - narra il regista - si sono fuse due compagnie: una di Nola ed una romana".




Un'opera senza tempo, un'ode alla capacità di essere coerenti, a costo di essere odiati ed etichettati come marginali ed outsider. Che schiaffeggia l'ipocrisia che caratterizza i tempi odierni, che fa il verso ai falsi profeti ed a coloro che vogliono essere protagonisti di un'epoca senza meriti.





Al centro, poi, c'è l'amore: quello capace di volere a tutti i costi il bene dell'altro, anche al di sopra del proprio e della propria legittima ricerca della felicità.




"L'opera, nella sua intensità - spiega il regista - presenta molti elementi barocchi. Io ho cercato di eliminarli, rendendo il testo scarno ed essenziale".

Essenziale, ma efficace, anche la scenografia, costituita da alcune impalcature lignee e da grossi teli bianchi.




Un lavoro per sottrazione, anche il naso lungo fa la sua comparsa solo verso la fine della rappresentazione, che risulta particolarmente vivido ed intenso, grazie anche ad un'operazione di metateatro, di matrice pirandelliana, dove la vita quotidiana, con i conflitti che hanno caratterizzato alcuni momenti delle prove, irrompe sulla scena così da "raddoppiare il dramma".




L'amore segreto e negato tra Cyrano e Rossana si sovrappone, a tratti, a quello tra Danilo e Laura. A Cristiano si alterna Venanzio e tra i due uomini si accenderà una disputa in grado di spaccare per anni la Compagnia teatrale.




"Ho eliminato una serie di elementi - continua Andolfi - per concentrarmi sulle dinamiche collegate all'incontro ed alla relazione tra i diversi personaggi".




Oltre ai richiami a Pirandello, spiccano quelli relativi alla commedia dell'arte e degli equivoci come accade, ad esempio, per lo scambio della lettera.




"Registicamente - continua Andolfi - ho voluto raddoppiare l'unidirezionalità del tempo cercando di mettere sia l’attore che il personaggio di fronte ai bivi della vita".




Cyrano, come ribadisce il regista, messo di fronte alla possibilità di essere maggiormente accettato scendendo a compromessi, predilige, a costo di soffrire, la coerenza con se stesso e la difesa della verità contro i falsi perbenismi.





Nonostante lo stesso Cristiano gli riveli che Rossana ama lui,  i suoi versi e le sue lettere, e non la sua bellezza, anche dopo la morte dell'uomo Cyrano manterrà il segreto, pur di lasciare intatti i ricordi ed i sogni di Rossana. 




"Ognuno di noi - evidenzia il regista -  guardando quest’opera, vorrebbe essere Cyrano proprio perché ognuno di noi, guardando indietro, vorrebbe aver avuto il coraggio di essere coerente con se stesso, fino alla fine, di fare solo ciò che si ama e, soprattutto, di avere il coraggio di amare qualcuno più di se stesso."





E' in questo momento che la vita quotidiana e l'opera si scindono perchè mentre l'amore di Cyrano non riuscirà ad essere mai vissuto, rimanendo sospeso ed a tratti irreale, gli attori riescono a cambiare il corso degli eventi, riuscendo ad immaginare, agire e vivere un possibile finale diverso.






CYRANO DE BERGERAC di E. Rostand

Regia di Roberto Andolfi
Light designer: Martin Emanuel Palma

Con Danilo FrantiVenanzio AmorosoLilith PetilloPamela VicariAdriano DossiMatteo Pantani e Giuseppe Amato.

Primo appuntamento autunnale a Lauro (Av) con la tragedia di Otello reinterpretata in uno spettacolo itinerante ambientato nel castello Lancellotti, in programma il 30 settembre.

Nel frattempo il teatro cercherà casa, per una nuova rappresentazione partenopea del dramma di Cyrano, prevista in versione invernale.




domenica 9 settembre 2018

Un luogo fuori dal tempo: Piano Vetrale tra murales e case della memoria

Piano Vetrale si trova a 4 chilometri da Orria Cilento.

Un piccolo borgo che si snoda tra viuzze e vicoli, sulle cui pareti è possibile ammirare murales, ispirati ai soggetti più disparati, da quelli religiosi, a quelli mitologici. Nettuno agita i mari soffiando i venti. La Vergine abbraccia amorevolmente il suo bambino, le cornucopie portano abbondanza e prolificità.

E poi l'incontro tra il cielo e il mare sotto l'occhio benevolo del sole, le storie di emigrazione, con le valigie di cartone, e di amori tenaci capaci di resistere alla distanza, quella necessaria a trovare lavoro, mitigata dai ricordi, dai sogni e dalle speranze. L'elogio alla musica, all'arte, alla pittura ed al genio umano.







Ed ancora le storie della Francesina, tornata lì perchè senza quei luoghi e quelle persone non ci sta stare, che ha portato con sè la sua bimba. La ragazzina insegue un cane, suo compagno fidato di giochi, mentre i vasi di fiori si animano e cominciano a correre tutt'intorno, più simili a piante carnivore.

O il bacio tra il mare e la luna che si sono donati il cuore. Le storie dei crociati che schiacciano il serpente del male e combattono per la fede, rischiarati dalla luce divina. I girasoli, fragili  e tenaci, che inseguono ostinatamente il  sole. A  sorpresa, poi, tra le viuzze,  ecco spuntare delle lezioni di francese vergate sui muri attraverso le immagini. Ed un inno alla forza ed alla libertà femminili, capaci di rompere le catene e squarciare il velo che le opprime: sulla scena irrompe un eroina simile a quelle disegnate da Milo Manara che disvela due intensi occhi di un caldo color castano.







Ma spazio è dato anche agli antichi mestieri, con l'immagine di una vecchina che fila la lana, ed al tempo dell'attesa, con gli anziani del paese che osservano la vita scorrere loro davanti, mentre i più giovani sono affaccendati nel lavoro, una capra allatta il suo piccolo ed un cane riposa nell'ora del meriggio.





Camminando per le viuzze ci si imbatte, poi , nella casa delle memorie, allestita dal sig. Emilio grazie anche all'incitamento ed alla collaborazione di sua moglie Immacolata.



Un luogo che custodisce attrezzi da lavoro come ad esempio zappe e rastrelli di diverse fogge, ognuno adatto a scavare all'interno di diversi tipi di terreno, caratterizzati da gradi differenti di durezza. Ed ancora scalpelli, grattugie, campanacci, pale per cuocere la pizza fritta sul fuoco del camino, campanelli congegnati per chiamare le diverse suore presenti in un convento in base al grado, pipe, mantici, fotografie d'epoca e una sorta di rubrica del telefono ante litteram dalle grandi dimensioni.




Oggetti utili e curiosi che parlano di un'epoca, di usi e costumi e di un mondo che appare, per molti versi, ormai lontano, ma in grado di lasciare al presente ed al futuro una preziosa lezione da non dimenticare.




Il sig. Emilio, alla fine di una visita tra i saperi, i mestieri ed i ricordi, ci mostra orgoglioso una serie di chiodi di varie dimensioni, legati insieme e realizzati in acciaio temprato, un acciaio armonico, capace di sprigionare una serie di melodie che si fondono insieme.



"Mi piacerebbe - dice - creare una stanza della musica".




Una stanza dove i bambini e i ragazzi imparino a riconoscere i diversi suoni ed a perdersi in essi, lontani dai ritmi alienanti, immersi in un passato che ha il sapore di un futuro possibile.

** Le foto dei murales e della casa fiorita sono di Cristiana Carotenuto

venerdì 7 settembre 2018

Estelle di Massimo Piccolo: quell'ossigeno che ci fa amare e vivere

Ho letto Estelle. Storia di una principessa e di un suonatore di accordion di Massimo Piccolo, edito da Cuzzolin, nella pausa di relax agostano.



Questo libro ha saputo essere refolo di frescura nelle giornate afose e magia e fiamma che scalda il cuore in quei pomeriggi di pioggia incessante che hanno caratterizzato la seconda metà di questo mese rivelatosi così strano.

Perchè Estelle è così: una storia che sa regalare all'anima ciò di cui ha bisogno, sapendo cambiare, sapientemente ma anche repentinamente, direzione al racconto ed ai toni e facendo spazio alla sorpresa, alla meraviglia, ma anche alla tristezza ed alla nostalgia.



Estelle, apparentemente, ha l'impianto di una fiaba classica : storia di una principessa di un regno lontano, che avrebbe voglia di scoprire il mondo, ma che una serie di circostanze mantengono chiusa nella sua gabbia dorata.

Un po' come accade  all'affascinante Jasmine. Ma in questo impianto irrompe sempre un sentimento, un'emozione, una sensazione, inaspettati. Che sia il desiderio che scompagina le previsioni ed i programmi o la nostalgia che porta una nota stonata nella apparente quiete quotidiana, la favola assume spesso il sapore della realtà che ognuno di noi vive, seppur trasposta in un luogo magico e lontano.

Il desiderio così irrompe sulla scena e fa riconoscere due anime simili, seppur appartenenti a contesti e situazioni di vita antitetiche. Li fa sfiorare per poi toccarsi. Fa intrecciare i loro respiri. Li porta a cercarsi anche se nel loro incontro iniziale già si presagisce la sofferenza ed il distacco.



Estelle è una favola che dell'amore tocca tutte le corde. Un amore paterno che si traduce in iperprotezione, che vorrebbe salvare ed, invece, in qualche modo, finisce per condannare. Ed ancora, quell'intensa vibrazione che travalica le differenze e si manifesta nonostante tutto, che continua ad ardere anche quando sembrerebbe che manchi la giusta quantità di ossigeno per bruciare. Ma anche quel sentimento quieto che sembra poterci dare serenità perchè ci permette di non mettere in discussione alcune rassicuranti certezze...

Ossigeno che può trasformarsi in una possibilità di un respiro più ampio o in musica, attraverso l'uso sapiente dell'accordion, il mantice che fa calare una coperta blu su tutti, lasciando indenni dal torpore solo i due protagonisti, vibranti e finalmente davvero vivi e liberi di esprimersi al di là dell'etichetta.



La prosa è semplice e ricercata insieme, ed anche in questo caso Massimo Piccolo sa sottrarre la storia narrata alla banalità. I personaggi sanno attirare insieme, mescolandole, simpatie ed antipatie. Le sapienti ripetizioni di alcune frasi,  marchi di fabbrica tipici di situazioni e di personaggi, divengono un leitmotiv che sa imprimere il giusto ritmo.

Infatti, come dal tono di voce di una persona, dal suo modo di pronunciare e scandire un nome, se ne può intuire lo stato d'animo, così quelle frasi ci immergono nei sentimenti dei protagonisti e rendono il lettore compartecipe degli stessi.


E poi ci sono i dolci ed i vini, che ci portano il profumo, il colore ed il sapore di usi e tradizioni, che diventano viatici e portavoce di diverse culture, ma anche di momenti di incontro e di aggregazione, strumento di conforto e delizia del cuore e non solo del palato.

Il messaggio che Estelle lascia, a mio parere, assieme ad un sapore amaro e dolce insieme che si insinua in bocca e nel cuore, è che per amare, ed in definitiva per vivere, bisogna rischiare: abbandonare nidi e porti sicuri, sbugiardare le proprie stesse aspettative, cambiare direzione repentinamente. in barba ai lacci della paura, graffiarsi le mani pur di scoprire cosa possa esserci oltre.

Massimo Piccolo, come un audace ed esperto nocchiero, conduce il lettore tra i flutti di questa storia, dalle mille sfumature alla scoperta del finale, che, a non volersi fermare all'apparenza, potrebbe essere inizio di nuove storie.

martedì 4 settembre 2018

Blandizzi, tra musica e parole, emoziona al Maschio Angioino

 Come un buon bicchiere di vino, le emozioni vanno fatte decantare, affinché diventino limpide, sprigionino tutto il loro sapore e si imprimano per sempre nella memoria, partendo da quella corporea, che registra le vibrazioni proprie di luoghi e situazioni.




Così è accaduto per il concerto di Lino Blandizzi, svoltosi nella serata di martedì 28 agosto al Maschio Angioino. Una serata mite rischiarata dalle stelle e allietata dal refolo degli ultimi scampoli d'estate.




Lino saluta il pubblico, più tardi dirà che si è alimentato della loro gioiosa energia partecipativa, per poi aprire il concerto con  Fuori dal mondo. 

Continua con Tutto quello che mi resta, Vieni donna del sud, Dirti ti amo, La musica che gira intorno, omaggio ad Ivano Fossati, Siamo lontani e Se tu non credi in me




All'improvviso sul palco irrompe tutta la forza dei canti che richiamano la storia del Regno di Napoli, della lotta, della ribellione, delle radici e del riconoscimento identitario, attraverso il duetto con il rapper/beatmaker Tueff  e il brano Brigante pe' ammore, che si rifà all'intensità della canzone Briganti se more del gruppo  Musicanova




Non può mancare una struggente parentesi dedicata a Napoli ed alle sue Sirene che ancora ne sono protagoniste, con la loro malia, ma anche con il degrado di quella figura mitologica morente e putrescente. 




Al capoluogo partenopeo sono, infatti, dedicati i brani Per la mia città, Vierno Vattenne, unica poesia in lingua partenopea di Luigi Compagnone, musicata da Lino, allievo di Sergio Bruni, e Il buongiorno del caffè, che mette al centro la calda bevanda scura, sinonimo di aggregazione, condivisione e conforto, una rassicurante pacca sulla spalla in un momento di sconforto. 




A seguire Nessuno è più diverso, brano dedicato alla valorizzazione ed alla legittimazione delle differenze che albergano in ognuno di noi, al di là della specifica condizione esistenziale e sociale; E non è facile; Abbiccì, dolce filastrocca e nenia per far addormentare i bambini, scelta da Hachette come viatico per insegnare la lingua italiana in Francia.  Non voglio più vedere il mare, che narra le tragedie di chi intraprende la via del mare in cerca della salvezza dalle torture e dalla guerra, con la speranza di una vita migliore, ma da quello stesso mare finisce per essere inghiottito. Siamo alla frutta, narrazione della fine di un amore ma anche ricordo di tutti i momenti vissuti pienamente.






 Gran epilogo con Da noi in Italia che vuole essere un'ironica e acuta provocazione rispetto all'andazzo proprio di questo "benedetto assurdo Belpaese", rifacendosi alle parole di Guccini, che strizza l'occhio, nelle atmosfere del videoclip, alle sagaci stilettate di denuncia trasfuse in musica di Rino Gaetano.





Nelle canzoni di Blandizzi, la musica si gemella con le parole, divenendo una forma globale e coinvolgente di poesia. 

Un gemellaggio ulteriormente sancito dalla presenza della musica e delle parole del cantautore partenopeo, quale accompagnamento e supporto, alla presentazione di numerosi libri.

Per questo, i rappresentanti di Guida Editore, Homo Scrivens e Cento Autori hanno voluto ulteriormente sancire questo circuito virtuoso facendo omaggio a Blandizzi di una targa.

Adesso affidiamo alle parole del cantautore partenopeo il racconto di come nascono le emozioni, che raccontano le mille sfumature del cuore umano, che trasfonde in musica.





D. Quali sono le sfumature dell'amore che tu canti?

R. Quello che inizia e finisce, la gioia, la sofferenza, quello che attraversa l’anima e ti strugge con forti emozioni, senza troppi toni smielati.

D.Come si declina e si snoda l'amore nelle tue canzoni sociali?

R. In un percorso interiore, in quella profonda umanità che può salvare dalla disperazione e che invece sembra che il mondo abbia perduto. Un senso di umanità che quindi appare necessario ricercare e far rivivere andando verso gli altri, per incontrarli all'insegna della condivisione, e non ponendosi al di sopra di loro, in un'immaginaria e distorta gerarchia.

D. Quali sono i temi sociali a te più cari?

R. La violenza sulle donne, l’enorme movimento dei migranti dall’Est e dal Sud del pianeta, la pedofilia,il cambiamento climatico che altera la biodiversità, la valorizzazione delle differenze, affinché non vengano stigmatizzate come diversità e marchi impressi a fuoco nell'esistenza, la scarsità d’acqua, classificabile come il rischio numero uno tra quelli che attanagliano il nostro pianeta.

D. Stai preparando il nuovo disco: quali differenze sonore ci saranno rispetto ai precedenti?

R. Sto sperimentando nuove sonorità in una forma più contaminata, in una ricerca stilistica d’avanguardia, un sound Electro Pop Folk.

D. Com'è composta la formazione che ti accompagna?

R. Nei live in chiave acustica, sono accompagnato da un violoncellista, un organettista, un percussionista, un chitarrista e qualche special guest.

D. Hai in programma di ampliarla?

R. Sicuramente: è tutto in un continuo evolversi.

D. Tu canti l'amore, ma stiamo vivendo un'epoca dove le emozioni sembrano avere sempre meno spazio. Come se ne può uscire secondo te?

R. L’amore nasconderà sempre un tesoro senza tempo che cercheremo ovunque e in ogni cosa, in nuovi orizzonti, in nuovi modi di vedere… Io non smetterò mai di cercarlo, soprattutto nel mio canto, in ciò che sento, nel mio perdermi nella musica. Si può uscire da questa epoca che viviamo, da questo plastico stato, ascoltando il canto di quell’uccellino che l’altra sera al concerto univa il suo canto al mio. Lo so… è poco figo, non spacca! Ma io vivo semplicemente di emozioni e mi godo buon cibo e buon vino.

*foto di Pippo by Capri