lunedì 29 ottobre 2018

Cibo a regola d'arte: quando l'alimentazione si gemella con la cultura


L’edizione ottobrina di Cibo a Regola d’Arte, organizzato dall’Istituto Valorizzazione salumi Italiani (IVSI), in collaborazione con il Corriere della Sera, svoltosi nel Museo Villa Pignatelli, sabato 27 e domenica 28, riscuote un grande successo di pubblico, all’insegna del gusto.
Spicca tra i vari eventi domenicali, quello dedicato al maiale tra gusto e cultura, con un’analisi che parte dal Medioevo, dal titolo “Il maiale e la sua identità culturale: dal Medioevo alla società contemporanea”.

Perché, come evidenzia Luca Govoni, docente di Storia della cucina e gastronomia ad ALMA, citando Eugenio Montale, osservando il modo di mangiare degli altri sembrerebbe possibile capire  il loro modo di comportarsi e risalire ai come ed ai perché.



Il cibo, dunque, è da sempre legato a doppio filo con la cultura dato che, come ribadisce l’antropologo Claude Levi Strauss, “non si mangia ciò che è buono da mangiare, bensì ciò che è buono da pensare”, mentre la cultura si articola in una struttura simmetrica.
“Il cibo – sottolinea Luca Govoni – ci racconta di come siamo oggi e di come siamo stati. Nel Medioevo, ad esempio, regnava la paura della privazione alimentare”.

Perché proprio il maiale? Perché il suino trova nella geografia tipica dell’Italia il suo habitat ideale. Non a caso, poi, nel paradiso troviamo un maiale che si autorigenera, simbolo di abbondanza e della vita che si rinnova.

Esiste dunque, secondo l’immaginario medievale,  per i cristiani, anche un maiale buono. Il più famoso è quello raffigurato in numerose immagini insieme a Sant’Antonio, considerato il padre del monachesimo e di quel “pregare e lavorare” che ispirò la regola di San Benedetto.



Però, per la Chiesa, il maiale è soprattutto il simbolo del vizio: cavalcatura del peccato e compagno di perdizione. Ecco perché la chiesa vede nel regno dei magri il regno del bene (opposto a quello dei grassi) e prescrive ben 150 giorni di “magro”. Di fronte a proibizioni e privazioni, dunque, il popolo sogna  dei posti ove vigano poche regole, come nel caso del Paese di Bengodi, dove abbondano montagne di parmigiano e succulenti ravioli immersi in brodo di cappone;  o la Città del sole, auspicata dal filosofo Tommaso Campanella.

O, ancora, la Torre di Babele, dove si parlano mille lingue diverse, capace di ergersi verso il cielo.
“Dopo che l’utilizzo del maiale e la sua trasformazione – continua Govoni – si è consolidato nella memoria collettiva, si può passare alle sue oscillazioni, alle varianti”.

Attualmente, secondo quanto evidenzia il docente di storia della cucina e gastronomia, l’educazione alimentare si configura come un’educazione al “non spreco”, dopo tanto spreco compiuto, ma la lezione parrebbe provenire già dal Medioevo, dove “non sprecava nulla di nulla”. In questo modo i valori passati vengono attualizzati.

Secondo la spiegazione di Govoni il gusto nasce dal giusto mix di necessità e penuria.
“Non a caso – dice – si parla di pane, che è l’elemento necessario a riempire lo stomaco, e di companatico, un elemento accessorio, di accompagnamento, scarso perché costoso”.

Secondo gli addetti ai lavori, oggi forse appare improprio, almeno in Occidente, parlare di penuria del cibo e di necessità. 
La selezione è legata, semmai, alla ricerca della particolarità e dell’eccellenza, al dialogo tra quantità e qualità.

Ma emergono, e vanno tutelati, valori parimenti importanti, come l’importanza dell’ecologia, la biodiversità, la sostenibilità, la tipicità e la località dei prodotti.

IL PANINO DEMOCRATICO

Per Daniele Reponi, maestro dei panini gourmet, il panino è di per sé simbolo del cibo democratico, molto popolare e “popolano”.

Per l’occasione ne sono state proposte due versioni. Una, in omaggio alla città ospitante, con salame di Napoli, friarielli, cime di rapa leggermente scottate ed amarognole, e  zucca, un ponte ideale con il resto d’Italia.


L’altro è farcito con mortadella di Bologna IGP, in cui c’è un’alternanza di sapidità e dolcezza. 

Infatti, secondo il maestro gourmet, la mortadella viene dolcificata e contiene zuccheri e questa componente può essere amplificata aggiungendo una nota dolce con rivoli di miele. A conferire sapidità, poi, ci pensa il cappero, mentre i pomodorini, semi-secchi, datterini, gialli e rossi, donano una scarica di acidità e agiscono anche sull’aspetto visivo, essendo un tipo di pomodoro a buccia un po’ grossa.


“Sia il salame che la mortadella – spiega Reponi – sono costituiti da un impasto. Ciò vuol dire che sono uguali dalla prima all’ultima fetta, a rappresentare l’uguaglianza degli individui. Gli ingredienti di accompagnamento alludono alla divisione dei poteri nella democrazia. Ecco perché è necessario vi sia un grande equilibrio nell’utilizzo di tutti e tre gli ingredienti”.

Secondo Reponi, poi, la vera democraticità consisterebbe nel permettere a tutti di accedere ad un cibo sano.



“Si tratta – ribadisce – di un problema culturale, alla base delle scelte. E’ una questione di approccio nello scegliere cosa mettere a tavola. Attualmente si registra un fermento positivo, all’insegna della qualità e della larghezza di vedute negli accostamenti. Prediligendo consapevolmente un cibo sano, infatti, si valorizzano mestieri e conoscenze , alimentando una cultura e un sapere legati al cibo”.

Attenzione, però: interrompendo questa cultura rischiamo di perdere anche il sapere connesso.
Occorre, invece, ammoniscono gli esperti, riscoprire un rapporto di fiducia con chi ci vende il cibo, alimentando tutta la filiera e difendendo lavoro e competenze.


Ph. Grazia Guarino

mercoledì 17 ottobre 2018

Da Babette, siglata l'intesa tra birra e sfogliatelle dolci e salate

Metti una location dall'atmosfera un po' vintage, che riesce ad essere punto di aggregazione per un pubblico  variegato. Metti delle birre dai gusti eterogenei ed estremamente versatili, abbinabili ad ogni piatto, per esaltarne i sapori caratteristici. Metti la carica delle sfogliatelle dolci e salate, con il loro bagaglio di croccantezza.



Ed eccovi servita la squadra di eccellenze che ieri, martedì 16 ottobre, ha realizzato una serata enogastronomica da sold out.

A gemellarsi alcune birre dal gusto invitante, prodotte da piccoli birrifici o microbirrifici, tra le etichette proposte dal pub Babette (qui), locale molto amato che pulsa nel cuore di Fuorigrotta, e le stuzziccanti sfogliatelle proposte in versione dolce e salata (l'ultima nata è la versione ripiena al soffritto) da SfogliateLab - Tentazioni partenopee di Vincenzo Ferrieri (qui).

Si comincia con un gustoso mix di sfogliatelle salate ripiene di: provola e funghi, provola e peperoni, salsiccia e friarielli e soffritto, ultima novità nata in casa Ferrieri.

Ad annaffiare queste prime principesse della tavola la  "Blanche De Bruxelles", una bianca belga, sui 5 gradi,  fresca, dissetante e decisamente beverina.

A fare da Cicerone, tra un tavolo ed un boccone e l'altro, per il mondo delle birre, è Alfio Ferlito.



"Questa  birra - spiega Ferlito - è caratterizzata da una base di malto d'orzo, unita ad una di frumento non maltata. Il suo flavour la rende particolarmente adatta a "sgrassare" la bocca, puledola e preparandola a degustare un nuovo sapore".



Intermezzo a base di carne bianca con spiedini misti di pollo, tacchino e maiale, di Mario Carrabs, accompagnati da verdure grigliate e patatine fritte, da immergere in una salsa piccante o, a scelta, in una salsa greca.

A fare da accompagnamento una "Lervig Lucky Jack Extra", una leggera American Pale Ale dal corpo strutturato e molto facile da bere.

Un profumo intenso, un colore ambrato decisamente affascinante, ed un retrogusto amarognolo ma piacevole, che si accentua via via. Lo stabilimento è norvegese ma si vale dell'apporto delle competenze e dell'esperienza di un birraio tedesco di lungo corso. La lattina grigio metalizzata, in cui viene servita, ha un aspetto retrò ma divertente.

Dunque collezionisti di tutto il mondo unitevi!

Si conclude in bellezza con un trittico di sfogliatelle dolci al marron glaces, alla ricotta e pera ed alla fantasia di frutta, ossia un tripudio di frutti rossi e kiwi.



Ad annaffiarle un  "Rochefort 8" - una delle birre trappiste più famose al mondo, dal gusto ricco, beverina.

Fa parte del consorzio delle birre trappiste, prodotte attraverso le attività dei monaci.

La gradazione sale e il gusto si fa corposo e deciso, per essere a contrasto con quello dei dolci.

"E' una birra dove il 5% delle componenti è tostato - evidenzia Ferlito - . La tostatura fa avvertire un flavour di caffè, ma anche una nota al cioccolato e si percepisce il gusto dei frutti rossi sotto spirito come prugna e ciliegia".

La corposità si sposa bene con quella tipica della voluttuosità di ricotta e marron glacè, mentre prende un po' il sopravvento sulla delicatezza della crema pasticciera, farcitura della sfoglia ai frutti rossi, che però richiamano il sapore della frutta sotto spirito.

Che dirvi? In effetti non abbiamo ancora ben capito se la birra abbia un effetto antidolorifico superiore al paracetamolo, come affermato da una recente ricerca scientifica. Forse ci serviranno altre serate come questa.

Sicuramente attraverso l'esaltazione del gusto, unita ad un momento di aggregazione e di condivisione, tutte le preoccupazioni sono volate via, tra un boccone, un sorso e una  risata "di gusto".

** Le foto delle sfogliatelle salate sono di Grazia Guarino



martedì 16 ottobre 2018

Bataclan di Renato Aiello: il coraggio di tener viva la memoria


Tornare a Parigi ad un anno dall’attentato al Bataclan. Un attentato in cui 90 ragazzi hanno trovato la morte, laddove avrebbe dovuto regnare l’allegria, la spensieratezza, la voglia di vivere e di sorridere e lo spirito d’aggregazione, che ogni tipo di musica condivisa porta con sé.

Tornare in quei luoghi e trovare l’atmosfera e le geometrie di una città totalmente cambiate.

Dedica a questo ricordo la sua prima personale, conclusasi ieri, 15 ottobre, Renato Aiello.

Una mostra che non a caso reca il nome di un luogo, il Bataclan, dove gli opposti, la ferocia e la violenza insensata, ma anche la forza di resistere e di ritrovare la propria identità collettiva, sulla scia di una spiritualità fortemente secolarizzata,  parrebbero poter trovare una loro composizione.



“Ho incontrato – sottolinea Renato Aiello, giornalista e videomaker, autore della mostra ospitata nella suggestiva location della Chiesa di San Severo al Pendino (via Duomo 286) – una città totalmente trasfigurata, contraddistinta non solo da una soglia di attenzione fondatamente estrema, e soggetta a numerosi controlli, ma anche più cupa e privata della gioia di viere, in bilico sul confine dell’apatia”.



A sostituire l’atmosfera gaia, dunque, un’aria oscura di melanconia e mestizia.

Vivo, poi, il desiderio di mantenere quel colloquio di amorosi sensi di foscoliana memoria, di non recidere in maniera permanente un legame spezzatosi troppo presto e per un’altrui violenta e incomprensibile volontà.



Ecco il perché di quella silloge di messaggi laici e religiosi in dialogo, di quei volti uniti dalla medesima espressione assorta ed assorbita dalla sofferenza, senza distinzione di bandiere e di religione, cristiani e musulmani uniti,  perché la violenza è condannabile sempre da chi crede in qualcosa.



“Quei cumuli di fiori e messaggi – evidenzia Aiello -  mi hanno ricordato, con un tragico ponte emotivo, le valigie, le scarpe, i giocattoli, accatastati, simbolo della shoah ebraica”
Come sottolinea l’autore dei 30 scatti in bianco e nero, che hanno saputo cogliere frammenti di emozioni intense e di una storia “strappata”, dilaniata dalla ferocia, a colpire in quell’atmosfera intrisa di sofferenza è la percezione che “la comunità si sia stretta come una grande famiglia, condividendo una sorta di religione laica”.



L’autore delle foto, Renato Aiello, classe 1987, porta avanti questo ricordo trasfuso in immagini, con uno sguardo vivido e coraggioso, che sfida le sue stesse paure, in particolare quella di poter essere male interpretato, urtando così la sensibilità di chi quella tragedia l’ha vissuta sulla sua pelle e ne reca le ferite indelebili.



“In realtà molti Francesi sono venuti a visitare la mostra – continua l’autore – e hanno espresso un’impressione molto positiva attraverso i loro pensieri impressi nel libro degli ospiti”.
Per documentare quel ricordo Renato sceglie un bianco e nero contrastato, dove “il bianco dei corpi, dei fiori e della luce delle candele, contrasta con l’oscurità che tenta di inghiottire ogni cosa. Ma, nonostante tutto, il bianco riesce a farsi spazio ed a vincere la paura”.



L’attentato del Bataclan,  tragicamente incastonato in una notte di terrore, dove ci furono una serie di attentati coordinati, che fecero contare oltre 300 vittime, simbolicamente assurge, come ricorda Aiello, ad un 11 settembre Europeo, dove tutti, anche chi non c’era o chi è sopravvissuto, è rimasto  “ustionato” a vita da quella tragedia.



Le foto sono unite da un sottile ma tenace fil rouge: un senso di smarrimento, di incredulità, la percezione di una morte senza senso. Lo stesso sentimento di assurdo che hanno suscitato “tutti i genocidi del ‘900”.



“Il Bataclan si trova in Boulevard Voltaire. L’ennesimo paradosso di questa tragedia. – ribadisce Aiello - Questo attentato, infatti, costituisce la negazione del senso di identità e del rispetto della dignità umana. La negazione di qualsivoglia forma di tolleranza e di quei valori proclamati dall’Illuminismo”.



Una sfida coraggiosa, quella di Renato Aiello che, anche attraverso alcune installazioni, non teme di affrontare la più grande paura di tutti: quella relativa al tanto paventato tramonto dell’Occidente.
Renato Aiello dà corpo a quest’ombra scura attraverso un installazione in cui, in mezzo alle macerie europee, che egli rappresenta con alcuni mattoni, spiccano la Torre Eiffel e il Colosseo. Una maglietta ricorda le Torri Gemelle illuminate, sempre vive nella memoria,  e pesanti catene, quelle del terrorismo e della paura, ingabbiano tutto.



La parola chiave, dunque, è proprio la memoria.

“Se comprendere è impossibile – sottolinea Renato – conoscere, in special modo il male, è necessario”.



La mostra di Renato Aiello, in tal senso, è un tassello in quel percorso di necessaria conoscenza ed il pubblico l’ha premiato con un’affluenza che ha fatto registrare oltre 300 presenze.


E sembra proprio essere di monito l'immagine di quell'uomo, di cui Aiello ha voluto immortalare il memento,  che, nel silenzio della commemorazione, arriva con la sua croce lignea legata al collo e ad altre parti del corpo attaverso una corda.

Le sue fattezze "scavate" e quasi cristologiche e la sua magrezza sembrano evidenziare come la sofferenza, che macera dentro, consumi inesorabilmente. 

I telefonini di plastica incollati alla croce se da una parte parrebbero ricordare gli ultimi momenti dei ragazzi morti, i loro ultimi messaggi, forse le disperate  richieste d'aiuto; dall'altra sembrerebbero essere un richiamo all'importanza di ritrovare e coltivare relazioni davvero umane, non perdendosi la bellezza e l'autenticità dell'altro da sè, depauperata e svilita dai legami fittizi caratteristici dei social network

sabato 6 ottobre 2018

Otello: dramma della gelosia e celebrazione della solidarietà di genere

Otello rappresentato al calar del sole nella cornice del Castello Lancellotti di Lauro (AV), dalla Compagnia Controtempo Theatre, è sicuramente un dramma, una tragedia, della gelosia, della maldicenza, dell'intrigo ordito alle spalle, del dubbio che si insinua tra le paure, ma è anche un ritratto tracciato con le tinte della solidarietà di genere, della sorellanza femminile.



La rappresentazione, in formula itinerante, permette di compiere una visita attraverso il parco e le sale del castello, capace in un attimo di riportare indietro lo spettatore a secoli, costumi ed usanze passate.



E' lì che incontriamo per la prima volta Iago e Roderigo. Iago si presenta subito come il deus ex machina di tutta la vicenda, colui che ordisce intrighi, il genio ammantato di candore ma corroso dalle peggiori intenzioni.

Colui che apparentemente è al servizio altrui, in un rango da alfiere che gli è inviso, ma che in realtà non serve nessuno se non il proprio utile e la propria cupidigia.

 Come lo stesso Iago rivela, Roderigo è solo una pedina, uno stolto, nelle sue mani, di cui egli muoverà i fili. Fili capaci di sconvolgere le vite di molti, alimentando, subdolamente paure, fragilità, demoni interiori, debolezze e spettri.



In mezzo a questa platea maschile le donne si aggirano, ora candide, ora più smaliziate, di quella consapevolezza che nasce dall'esperienza di vita e dal dolore, all'insegna della solidarietà di genere.



Sono loro a disegnare il profilo di un orizzonte più terso, di un riscatto possibile. Sono loro viatico di riappacificazione e di chiarimento, di verità anche a costo della vita.



Infatti, Desdemona morirà ,abbracciando il suo destino di sventura, proclamando la sua innocenza e avvertendo il marito del fatto che sia contro natura uccidere per amore. Emilia, pur di difendere l'onore della sua signora e di ristabilire il giusto ordine delle cose, si schiererà contro il marito, sbugiardandolo, e per mano sua troverà la morte.



Nella morte le due donne si ritroveranno unite e complici come in vita, vicine nelle anime come nei corpi adagiati sul letto.

Una scena che ricorda, nelle atmosfere, i quadri di Artemisia Gentileschi che rinviano all'uccisione del tiranno  Oloferne.



In quei dipinti Giuditta, che abbia un espressione furente, sadica o quasi divertita, trova nella propria fantesca una compagna,  una complice, un'alleata. La forza muscolare delle due donne, di per sè insufficiente a travalicare  quella dell''uomo, si unisce in un  tutt'uno per fare giustizia della barbarie, così come sembrerebbero essere in connessione le  menti muliebri, rivolte verso lo stratagemma  e l'astuzia, capaci di diminuire la lucidità dell'uomo.



Anche se in questo caso la situazione è rovesciata, ed è l'anima femminile ad avere la meglio sulla violenza e la ferocia maschile, anche attraverso l'inganno, parrebbe essere identica la solidarietà femminile che permea la scena, fino alle estreme conseguenze.

Nella vicenda narrata la fanno da padrone anche altri temi molto attuali, come lo stereotipo che annichilisce ogni forma di diversità e si traduce in pregiudizio e paura.

Infatti Otello è il Moro di Venezia, lo straniero ed il diverso per eccellenza. Tenuto per il suo rango militare ma anche disprezzato per la sua diversità che per molti sembrerebbe essere sinonimo di inferiorità e di conseguenza di "usurpazione" di un ruolo e di riconoscimenti  che spetterebbero ad altri in nome di caratteristiche ascritte di razza.




E proprio l'idea che il suo sembiante provochi diffidenza e paura, finanche repulsione, persino in sua moglie, è la miccia che, innescata a dovere, fa poi esplodere la vampa di una gelosia distruttiva.





La formula itinerante, con la quale lo spettacolo è proposto, permette di immergersi totalmente nelle suggestioni del luogo ed anche di interagire in qualche modo con gli attori. La recitazione ed il pathos sono intensi.



Una prova magistrale che ha saputo stregare il pubblico.


** foto di Cristiana Carotenuto