martedì 8 dicembre 2020

Il tatto delle cose sporche: la poesia e la delicatezza insite in una "feroce" carnalità

 Coelho ci dice che quando si fa l'amore con chi è frammento della nostra anima si è costantemente immersi in un dialogo amoroso con suo corpo. 

Andrea Gruccia riprende e rinforza il concetto dicendo che è come fare l'amore con lei attraverso qualunque cosa... Anche attraverso un delicato gelsomino o un profumo, rendendola gravida attraverso parole e pensieri pieni di desiderio. 
 

 
 
Quello che Andrea Gruccia delinea ne Il tatto delle cose sporche, edito da Milena Edizioni, è un gioco di specchi. Tutti i protagonisti si specchiano negli altri e dal fondo delle loro anime emerge, per risonanza, il medesimo tumulto, gli stessi dubbi o, al contrario, un bacino valoriale che resiste e sfida la ferocia della quotidianità. O, ancora, una lama tagliente di oscurità che, come una falena, è inesorabilmente attirata dalla luce.
 
Tutto si svolge in una Torino calda e decadente, che a tratti sa mostrare il suo volto accogliente ed a tratti indica come le nuove tendenze figlie della parte oscura della globalizzazione fagocitino le tracce di ciò che è tradizione e antichità.
 
In questo intrico di dolenti vicende umane, di disperazioni, di bisogni e nervi scoperti che si intrecciano in maniera ansimante ed a tratti compulsiva, si rincorrono, attraverso lo spazio e il tempo, tre identità. Intorno a loro, che trovano il loro trait d'union e strumento di dialogo nel sesso, nel contatto ossessivo dei corpi, eternato attraverso alcune fotografie, si muove un microcosmo di personaggi, pulsanti di feroce umanità e fragilità. 
 

 
 
Andrea Gruccia usa un lessico ricercato, dove nulla è lasciato al caso. Parole che traducono attimi di vitalità sfrenata dove si mescolano umori, odori e sapori. Dove, quasi inaspettatamente, dato che si ha il coraggio di toccare con mano anche ciò che è considerato proibito, la poesia trova spazio e una dimensione saldamente disvelatrice.
 
Il finale resta aperto, parafrasando un anelito di poesia preso  in prestito da Leonard Cohen, come una ferita o una crepa da cui far entrare la luce che possa rischiarare l'oscurità. Punto non di fine, ma di ripartenza per un nuovo viaggio, che si muoverà a metà tra il reale e il surreale. 



sabato 31 ottobre 2020

Storia di un (quasi) amore in quarantena. Racconto di una passione ai tempi del lockdown

 Il libro Storia di un (quasi) amore in quarantena di Davide Gambardella, edito da Graus, può sembrare banale come sono divenute banali e piatte le giornate durante la lunga fase del lockdown.

Tutte uguali a se stesse, sospese sul baratro della noia, tese tra ansia e disperazione, uno spettro che ora si riaffaccia.

Una banalità che ci fa rabbia ed invidia insieme: perché tutto nasce da una violazione delle trincee, dei confini, delle limitazioni, tra due anime e due corpi che hanno voglia di evadere e di esplorare l'altro e quel che resta di una quotidianità depauperata e ne trovano il coraggio. 


 

Ma è anche un libro che, a tratti, sa stupire. Perché ci riporta pezzi del nostro vissuto che già si trovano ad intersecare la grande storia e che, nella circolarità dei corsi e ricorsi storici, già ci stiamo ritrovando a rivivere.

Le attività commerciali chiuse, o in forte sofferenza, la normalità alterata, le canzoni ai balconi quale strumento di contatto, la socialità rubata che assume toni e forme grotteschi, il futuro incerto, inghiottito da una nube tossica nera e densa che stringe alla gola.


 

 Il divario stridente tra chi è tutelato e chi no. Tra chi è, giocoforza, appiattito sul presente, in corsa per la sopravvivenza e chi può guardare al futuro con maggior speranza. 

Davide Gambardella mostra tutta la sua passione di cronista d'inchiesta e di strada. A un gergo banale o che non risparmia volgarità lessicali che ricordano un po' il primo Fabio Volo, alterna un accostamento inusitato e ricercato delle parole, capace di attirare il lettore. 

Per il finale ci si ritrova nella stessa contraddizione che ha attraversato tutta la narrazione. Banale o spiazzante? Non vi resta che leggerlo allora!

domenica 23 agosto 2020

Con Vincenzo Ferrieri e SfogliateLab arriva l'aperitivo must have dell'estate

Vincenzo Ferrieri rappresenta la terza generazione di una famiglia il cui nucleo ruota intorno alle sfogliatelle ed alle tipicità dolci partenopee come la terra intorno al sole.

Tutto nasce dal suo bisnonno che apre un chioschetto dell'acqua nei pressi di piazza Garibaldi. Suo nonno poi, di ritorno da un viaggio di piacere in Germania, dove è rimasto stregato dallo street food, porta nel cuore di Napoli questa tradizione  culinaria con la Gastronomia tedesca il cui piatto forte è proprio il panino con l'hamburger.
 
Da lì la storia è scritta negli annali della famiglia Ferrieri.
 
 
 
"Sono orgoglioso di portare avanti, con SfogliateLab, una tradizione lunga tre generazioni tra mio nonno, mio padre ed i miei zii. Spero un giorno di poter passare il testimone a mio figlio Salvatore e che lui continui assieme a me questa tradizione cominciata nel 1970".
 
 
Il nuovo punto aggregativo di piazza Dante si propone di diventare il must dell'aperitivo, grazie alla sfogliatella salata che ripropone, arricchendoli, il gusto di alcuni ingredienti cardine della cucina tipica partenopea. 
 
 
 
Per chi predilige, poi la sfogliatella dolce, la scelta è tra gli oltre 40 gusti della sfogliatella campanella, dislocati tra la cima e il centro di una piccola montagna di pasta riccia dal sapore neutro, fatta con acqua e farina, che racchiude un cuore pulsante di ricotta fresca, custodita gelosamente all'interno di un'infusione di cioccolato.
 
Trionfatori all'Artigiano in fiera di Milano, con oltre 2000 sfogliatelle al giorno sfornate, e con sua maestà, il panettone artigianale al gusto di sfogliata, tanto da avere alla terza edizione uno stand da ben 58 metri quadri, rispetto ai 28 della prima.

Adorati in Veneto dove le sfogliatelle vengono distribuite ai punti vendita, a ritmo sostenuto, nel numero di circa 36mila, dalla società Sicur Spa, ora Vincenzo Ferrieri annuncia una novità allo studio.
 
Si tratta della sfogliatella dedicata al sommo Poeta che si perse nel mezzo del cammin della sua vita. 
 
 
 
La farcitura è al centro di golose sperimentazioni, ma si vocifera che la palma della vittoria potrebbe toccare al torrone, in un gustoso gemellaggio di sapori e tradizioni con la magica città delle streghe. 
 
"Il cuore palpitante della nostra produzione - sottolinea Vincenzo- rimangono i laboratori artigianali di SfogliateLab di Piazza Garibaldi".
 
Brindiamo con spritz e sfogliatella, dolce o salata, a questo meritato successo dietro al quale ci sono creatività, duro lavoro, competenza, pluriennale e multigenerazionale, e spirito di abnegazione. 


 

lunedì 10 agosto 2020

Hypàte: un inno alla libertà di pensiero ed al legittimo desiderio di esistere di Ipazia

Una rappresentazione magica e suggestiva, quella di Hypàte, a cura di Teatri di seta e Teen Thèatre, svoltasi lo scorso 30 luglio nella splendida cornice del Giardino Romantico di Palazzo Reale, nell'ambito del Napoli Teatro Festival edizione 2020.

Nonostante le restizioni, legate agli obblighi di distanziamento sociale ed alla condizione di grande difficoltà in cui versano i lavoratori dello spettacolo, lo spettacolo, scritto e diretto da Aniello Mallardo, con l’aiuto di Mario Autore, che firma anche le musiche originali, crea un alone mitico e mistico attorno alla figura di Ipazia, capace di riportare lo spettatore indietro di millenni.

 

A guidare lo spettatore in questo percorso a ritroso nel tempo sono: Serena Mazzei, Giuseppe  Cerrone, Luciano Dell'Aglio e Andrea Palladino

Filosofa, astronoma, matematica si racconta che Ipazia  d'Alessandria avesse scritto opere di pregio e fosse tenuta in gran conto anche da uomini colti, ma in realtà, come ci racconta lo stesso regista, su di lei non vi sono dati storici.

Questo fa sì che ella sia stata fatta oggetto di un processo di costante manipolazione, con livelli interpretativi multipli, che l'ha etichettata ora come guida razionale eccelsa, ora come strega, ora come martire e santa, tant'è vero che quella stessa Chiesa che ne decretò, nei fatti, la fine alla sua figura ha ispirato, quasi totalmente, quella di Caterina D'Alessandria. 

"Mi sono ispirato - racconta il regista - anche alla rivisitazione letteraria e teatrale operata da Mario Luzi. La mia Ipazia, però, vive il cruccio di ogni personaggio storico: quello di essere stata trasformata in altro da sè".

La scenografia è minimale, ma tutti gli elementi contribuiscono a dare ulteriore forza all'opera. Ipazia raccoglie e lascia scorrere continuamente tra le dita della sabbia. 

 


Sono le ceneri della memoria, delle opere, di ciò che siamo stati e che sembra riconfermare l'essenza effimera dell'esistenza umana ed anche di qualsivoglia gloria e vanagloria.

Ipazia si chiude nel silenzio, dato che il logos è perito,  a tratti pare sorridere, ma a ben vedere si tratta di una smorfia, un grido muto di sgomento ed incredulità, nella consapevolezza dell'inutilità delle parole in tali circostanze . 
 
E' quasi remota rispetto alle lotte di potere ed alle diatribe fratricide in atto, che dividono chi prima si chiamava amico e fratello o che si dimostrava capace di convivere in pace, all'insegna del rispetto. 
 
Si concentra ed è totalmente assorbita dalla scienza, sua compagna ed àncora di salvezza di fronte a tempi oscuri e brutali, dove l'estremismo, la violenza e l'oscurantismo hanno soffocato e ridotto al silenzio la voce della bellezza, del dialogo, della ragione. 
 
 

A più riprese Ipazia rivendica il suo essere stata una donna in carne ed ossa, reclama persino il diritto di possedere umane imperfezioni, mediocrità e fragilità , e di non essere solo il parto della penna di un poeta. 
 
Piano piano, però, le sue stesse certezze vacillano ed ella stessa finisce per perdere il senso della sua identità, diventando estranea a se stessa, argilla nelle mani di chi in lei vede una risposta funzionale ai suoi bisogni ed ai suoi perchè, di chi, in perfetta buona fede, cerca e vede in lei un punto di riferimento, ma anche di chi, in maniera dolosa e fraudolenta, vuole piegarne esistenza e memoria ai propri scopi.
 
E' il caso, ad esempio, del vescovo Cirillo che, tra blandizie e minacce, cerca di portare questa donna, saggia, forte e fiera, dalla sua parte, per defraudarla della sua popolarità e della stima di cui è attorniata e trasformarla in una femmina mite e sottomessa, che ammette i suoi peccati e la sua corruzione morale e si pente, divendo esecutrice degli ordini maschili e schiava delle altrui voglie. 

Ma Ipazia non si piega e Cirillo è certo di una sola cosa: non si può credere in ciò che lui proclama e seguire i dettami di saggezza ed equilibrio di quella donna libera: le due strade sono inconcili. Quindi lui la dichiara sua nemica e bersasglio dei suoi monaci invasati.
 
 

Un giorno Ipazia, che sta attraversando la città con la sua biga, viene tirata giù, denudata, privata della sua intimità e della sua dignità e fatta a pezzi con cocci di vetro acuminati.

Mani avide ed irrispettpose, al pari di cani rabbiosi schiumanti, la afferrano,  la dilaniano, la violano, la deturpano: cancellano ogni traccia di lei, consegnandola per secoli all'oblio. Parimenti anche Alessandria perderà il suo ruolo di centralità e diverrà luogo marginale ed oscuro.

Sottratta alla storia, con la morte Ipazia entra nel mito, non più fatta di pelle, legamenti, muscoli, ma delle parole d'inchiostro, mutevole e cangiante, di dotti e letterati. Non più figlia di suo padre, che le trasmise la passione e l'abnegazione per la scienza, bensì frutto della narrazione di un  menestrello.
 
Forse è morta giovane o forse già canuta. Forse produsse opere di pregio, da scienziata avanguardistica, o forse solo torie mediocri, le stesse di chi insegue un sogno, ma non riesce a tradurlo in realtà. 
 
 
 
Forse fu amata e venerata da due suoi discepoli o forse visse nell'algida torre d'avorio delle sue convinzioni, sorda al richiamo dei sensi e dell'amore, venerando solo il suo sacro femminino.

Vittima di un colpevole oblio durato secoli, ella ritroverà il lustro dell'eternità solo a caro prezzo ed accettando il sapore amaro della manipolazione e della strumentalizzazione, ormai divenuta non più ciò che ha scelto di essere, bensì ciò che gli altri vogliono ed hanno bisogno che ella sia, trasfigurata dal loro sguardo e dalle loro parole. 

"Nel corso dei secoli - evidenzia Mallardo - spero sia cambiato o stia cambiando l'approccio storico. La storia, infatti, ha un orizzonte molto più ampio di quello che per tanto tempo ci è stato raccontato: non comprende solo il punto di vista dei vincitori, bensì molteplici prospettive e angolazioni da cui guardare ai fatti. Comprende le vite dei piccoli, capaci di fare grandi cose".

 
** Le foto, che immortalano attimi di grande intensità, sono di  Giorgia Bisanti

lunedì 27 luglio 2020

O' professore do' pallone, un racconto per contrastare l'omofobia a firma di Sonia Sodano


O' professore do' pallone  è un racconto di Sonia Sodano, che in questo caso si spoglia dalle vesti di giornalista per assumere quelle di scrittrice, realizzato in punta di penna e di cuore. A fargli da cornice altri 19 racconti redatti da altrettante giornaliste campane, racchiusi nello scrigno del libro Interrompo dal San Paolo, edito da Giammarino Editore, a cura di Pietro Nardiello.


Sonia con coraggio e determinazione esce fuori dalla caratterizzazione folcloristica che spesso viene associata al calcio, sport di diletto per eccellenza, tipico di chi vuole stare senza pensieri ed ambasce. 
Attraverso la storia di Vito Ferruccio, che seguiamo dall'infanzia ai trent'anni viene, infatti, affrontato il tema dell'omofobia, che si insinua sotto la pelle del singolo individuo, annebbiandogli la vista e distorcendogli la visuale. Ma quest'odio condito da stigmatizzazioni, stereotipi e pregiudizi, ben lontani da ogni conoscenza reale autentica e profonda, serpeggia subdolamente negli spogliatoi e colonizza i campi da calcio, per poi esondare, spargendosi e corrompendo la città . 
Una conoscenza nulla che però si trasforma in un contemporaneo tribunale dell'Inquisizione che emette sentenze irrevocabili di colpevolezza, dove non c'è spazio per alcuna difesa nè contraddittorio, ma solo per una dolorosa condanna al rogo.
E' importante contribuire a creare la consapevolezza che quando ci rappresentiamo e rappresentiamo  una persona parole ed immagini non sono mai neutre, ma possono costruire le geometrie del pregiudizio e dello stereotipo i cui bordi sono frastagliati, aguzzi o taglienti, ma comunque sempre in grado di ferire e fare male e di indurre comportamenti pericolosi. 


Vito rischia di pagare con la vita e con la perdita dell'integrità fisica, un diritto sancito normativamente, la sua legittima aspirazione alla tutela della dignità, perseguita attraverso la libertà di essere ed esprimere se stesso. Uno stridente paradosso che resta marchiato nella carne. Il racconto ha un andamento circolare: parte dai sogni condivisi e ad essi ritorna, pur se con nuove consapevolezze. 
Lo stile ed il linguaggio mutuano la parlata della vulgata, contribuendo ad immergere totalmente il lettore in quelle atmosfere e negli umori della città. Sonia tratteggia questa storia con grande vividezza, attraverso una narrazione per immagini. 
A volte esse hanno la levità e la luminosità propria degli acquerelli impressionisti. Altre, la consistenza materica, spessa, dura, densa di chiaroscuri, delle pennellate tipiche dello stile pittorico di Artemisia Gentileschi, dove i colori si impastano con il sangue che scorga dalle ferite ancora aperte. 
Altre ancora si traduce in un'istantanea da fotografo di strada, connotata da immediatezza e carica di empatia. Trova posto in queste pagine anche la rivendicazione del diritto a rimanere nella propria terra e a non subire una sorta di deportazione coatta a causa delle disparità economiche. A lasciare aperto il cassetto dei sogni affinché prendano aria e non ammuffiscano. 
E poi ci sono le cicatrici: quelle esterne e quelle interne, profonde ed indelebili che, però, se accarezzate con gentilezza, possono renderci persone migliori. Il calcio, in questo modo, diviene strumento di riscatto, di ristoro, di respiro più ampio e profondo, capace di travalicare l'orizzonte claustrofobico di un quotidiano dove troppo spesso sognare non e' consentito, perché mal si accorda con le stringenti necessità di sopravvivenza materiale.

sabato 25 luglio 2020

SfoglieteLab: Vincenzo Ferrieri bissa in gusto e creatività a piazza Dante

Per ogni attività esistono numerosi momenti di debutto in società, che permettono di dialogare con la propria clientela e presentare le proprie leccornie.



Per Vincenzo Ferrieri ed il suo SfogliateLab uno è stasera, sabato 25 luglio, con un aperitivo davvero invitante, organizzato nel nuovo punto aggregativo di piazza Dante, sotto lo sguardo benevolo e protettivo del sommo poeta. Orologi puntati per le 19.00.

Una tradizione familiare solida, in grado di rinnovarsi, ma anche di rimanere fedele a sè stessa, in soluzione di sostanziale continuità.



Le radici affondano in una laboriosità lunga tre generazioni, sin da quando è nonno Vincenzo a mettere le mani nell'impasto, portata avanti dai suoi figli, prima, e dai nipoti, poi.

Il marchio targato Vincenzo Ferrieri è SfogliateLab (ma sono stati nutriti dalla medesima radice, per poi trovare modi e spazi di diversificazione, anche Cioccolatitaliani, con in tandem la coppia padre-figlio Giovanni e Vincenzo, esportato a Milano, e Cuori di sfogliatella di Antonio Ferrieri).

Questa nuova sede arriva dopo 20 anni dalla sede storica, situata nel cuore vivo e pulsante di piazza Garibaldi.



"Nella sede storica - racconta Vincenzo -  gestisco la pasticceria e i laboratori artigianali.  Trecentocinquanta metri quadrati, articolati su due piani".

Si bissa, quindi, con questo nuovo corner, più raccolto ed intimo, dotato di un forno, onde garantire la fragranza dei prodotti, cotti in loco, che però dal primo locale mutua lo stile, affidato all'architetto Francesca Guida, e i colori, per assicurare la piena riconoscibilità, e familiarità del marchio.

I prodotti targati SfogliateLab sanno conquistare tutti, da Nord a Sud: prova ne sono i numeri dell'e-commerce, con in testa la Lombardia: sfogliatella campanella, babà e pastiera, nelle due versioni dolce e salata.

Vincenzo ha il merito di aver letteralmente riconquistato la fascia giovanile, che si era allontanata dalla versione classica della sfogliatella riccia, preparata con una base neutra, fatta da acqua, farina e sale, e l'interno caratterizzato da un'esplosione di gusto, grazie alla mescolanza tra ricotta, semola e canditi.

"Per stregare un pubblico giovane - racconta Ferrieri, formatosi alla Scuola di Dolce e Salato, che ha intrapreso il suo cammino sin da quando aveva 16 anni - ho mantenuto la farcitura a base di semola e ricotta, ma ho portato il gusto all'esterno, sulla superficie, coniugando tradizione e innovazione".

Poi arriva la Sfogliatella campanella, che ibrida il dolce partenopeo classico con il cannolo siciliano, facendo incontrare la croccantezza della sfoglia esterna e la scioglievolezza della farcia interna.



Il dolce viene cotto su uno stampino a forma di campana: all'interno troviamo ricotta fresca e, affinchè l'esterno non si inzuppi, perdendo la sua peculiarità croccante, viene isolata con una parete di cioccolato infuso. Sulla cima ed all'esterno, poi, tornano gli ingrediernti che caratterizzano la peculiare variante, presentata in oltre 40 nuance di sapore.

Ingolosisce l'aperitivo reso unico dalle mini-sfogliatelle salate, dove sono protagonisti alcuni elementi tipici della cucina partenopea: salsiccia e friarielli; melanzana e provola.




A viziare davvero tutti i gusti, ci pensa la Sfogliata fredda, un semifreddo che propone una sfogliata scomposta, fatta con pan di spagna, sfoglia sbriciolata, mousse di ricotta al gusto di sfogliata, canditi, aromi naturali, un'altra sfoglia e zucchero a velo. A completare quella che assume i contorni di una vera e propria opera d'arte, conferendole un'ulteriore caratterizzazione per le papille gustative, la decorazione realizzata con una mini - sfogliata riccia classica.

"Questa apertura - racconta Vincenzo - è una scommessa ed insieme una promessa fatta a mio padre reduce dal Covid-19.  Trentadue giorni di ricovero in ospedale. Un gesto di speranza e rinascita, all'insegna del confronto e delle nuove idee".

Il protagonista della manifestazione Artigiano in fiera di Milano, la cui terza edizione si è svolta lo scorso dicembre, nella settimana che va dal 2 al 9, è il panettone al gusto di sfogliatella, figlio di una lievitazione lunga 72 ore, suddivisa in due momenti (doppia lievitazione), realizzato con una quantità di lievito madre davvero minima.

Per chi, come Vincenzo Ferrieri, si impegna, con competenza, dedizione, qualità e creatività, un brindisi al sapore dolce ed invitante delle scommesse vinte!







lunedì 22 giugno 2020

Gli Ultimi guerrieri. Un viaggio tra i Nativi Americani guidati da Raffaella Milandri

L'epidemia, poi divenuta pandemia, da Covid-19 ci ha ricordato o avrebbe dovuto, che nessun organismo vivente può sopravvivere se collassa chi lo ospita. Che non siamo pezzi sparsi e superiori, bensì un tutt'uno con l'ecosistema, anche se stentiamo a comprendere e ad applicare questa consapevolezza.


I Nativi Americani, invece, lo sanno bene. Per questo, cercano di vivere in piena armonia con la natura, proteggendo i boschi, l'acqua, la madre Terra, quale grembo fertile e protettivo.




Raffaela Milandri, con il suo libro Gli ultimi guerrieri, viaggio nelle riserve indiane, edito da Mauna Kea, ci fa conoscere da vicino questi popoli fieri, battaglieri, ognuno dei quali ha attuato la propria strategia di sopravvivenza alle angherie dell'uomo bianco, che ha surclassato la loro cultura, i loro usi, costumi e tradizioni, attraverso un processo di assimilazione coattiva. Quelli che noi, in maniera poco accorta, a volte chiamiamo Indiani o Pellerossa, facendo di tutta l'erba un fascio, ricorrendo, peraltro, ad una definizione desueta.

Assimilare vuol dire traformare qualcosa che è altro, estraneo, in qualcosa di nostro, che ci appartiene. Succede con gli alimenti, quando vengono metabolizzati dal nostro organismo. Ma quando si tratta di assimilazione culturale, parliamo di un processo che cancella le differenze, che azzera l'altro da sè e la sua legittima identità specifica.



Raffaella Milandri apre il suo libro ricorrendo alla tecnica del come se. Come sarebbe il mondo, in particolare quello Americano, se i Nativi vivessero rispettati nella loro terra, nelle loro tradizioni, liberi di tutelarle e tramandarle, di lavorare seguendo i ritmi delle stagioni, in accordo con il loro spiriti guida, in una visione lontana da quella di un capitalismo spinto fino alle estreme deleterie conseguenze.

Poi dà al lettore alcuni validi consigli da road map. Un lettore da lei trattato in maniera familiare, quasi fosse un compagno di viaggio a cui fare da Cicerone, suggerendogli delle dritte e disvelandogli quanto ha imparato su questi popoli durante i suoi viaggi. Uno stile colloquiale che, però, non abdica mai al rigore del racconto basato sulla ricerca e l'analisi scrupolosa delle fonti e sulle interviste a testimoni privilegiati, portavoce dell'intera comunità.



Gli consiglia quale percorso prediligere, dove e come mangiare, dove pernottare, all'insegna del low cost e cosa sia assolutamente necessario fare, come ad esempio l'assicurazione sanitaria, o non fare, onde evitare di esporsi ad inutili pericoli, rispettando profondamente luoghi e spiritualità.

Il libro è disponibile in versione cartacea, ad alta leggibilità, con lettere grandi e l'utilizzo di un'interlinea che assicura un buon livello di comfort visivo. La versione e-book è arricchita da un ampio corredo fotografico a colori (da cui le foto che arricchiscono l'articolo, ad opera di Raffaella Milandri, sono tratte).

Ora lasciamo la parola a Raffaella che ci accompagnerà in un viaggio di conoscenza degli ultimi guerrieri e del loro universo di senso e significato. Guerrieri, questo è certo: i Crow hanno cercato di lottare agendo dall'interno, attraverso un'alleanza con quello che per molti è solo un nemico. I Lakota, dissidenti, contestatari, non hanno mai voluto scendere a patti, a mediazioni, a compromessi. 



Due facce della stessa medaglia: quella della tutela e del disperato tentativo di sopravvivenza di una cultura dalle radici forti ed antiche, ma attaccate e minate da più parti.

D. Tu racconti la storia di due tribù restituendo loro la dignità della verità storica. Ti sei basata esclusivamente sui loro racconti?
 
R. No, certo, ho fatto ricerche incrociate sugli archivi governativi statunitensi e su molti siti gestiti da Nativi Americani, è una procedura che mi permette poche imperfezioni storiche. Anche se, come si suol dire, "la storia è sempre raccontata dalla parte dei vincitori". Unire testimonianze dirette e ricerche sia su fonti storiche che su siti e giornali contemporanei mi consente un livello di veridicità che esula dal soggettivo.




D. Sei stata adottata dalla famiglia Crow di Cedric: ha cambiato ulteriormente la tua visione del mondo e delle relazioni?

R. Certo. Essere accolti come una persona di famiglia mi ha allargato la mente e il cuore. Per me esiste quel puntino sul mappamondo, là in Montana, a cui sono connessa ogni giorno condividendo gioie e preoccupazioni. La accoglienza della famiglia Black Eagle è stata il chiaro segnale della mia strada da seguire sul percorso a favore dei popoli indigeni.
 
D. In che modo la tua visione da occidentale, se si dà un senso maggiormente bilanciato al profitto, può aiutare le tribù a difendere i loro diritti in un'epoca permeata da un capitalismo spinto?

R. Innanzitutto , se parliamo di profitto, loro sono molto distanti dal senso del business che muove le vite degli occidentali e delle società capitalistiche, come anche la Cina, ad esempio, che alla fin fine seguono un modello eurocentrico.
Io credo che per loro sia fondamentale ricongiungersi a quei diritti identitari che possano supportare anche le loro economie, convogliando ad esempio il turismo a loro vantaggio,
e anche il mercato del loro artigianato che troppo spesso viene sfruttato dai Bianchi per trarne profitto. Sto scrivendo una GUIDA ALLE RISERVE INDIANE che ha lo scopo sia di divulgare la conoscenza sul mondo dei Nativi Americani, sia sul modo di praticare un turismo sostenibile che porti vantaggio alle loro comunità.





D. Oggi assistiamo ad un boom di filosofie e religioni alternative, che parlano di speranza e misticismo, e andiamo a cercare risposte in culture altre. Come vivi il contatto con la spiritualità dei Nativi che plasma il loro rapporto, ad esempio, con il tempo e con la morte?

R. Amo la spiritualità dei Nativi ma lungi da me il cercare di emularla. Le radici di ognuno sono profonde e non sopporto, tra l'altro, chi si ammanta di conoscenze e tradizioni
di altri popoli, soprattutto per profitto. E' la solita, vecchia appropriazione culturale. Mi riferisco ai falsi sciamani bianchi, ad esempio. Quanto a me, il loro modo di affrontare la vita mi ha infuso una certa serenità e ha ampliato il mio discostamento dai ritmi della nostra società consumistica . La diversità è un grande valore aggiunto.

D. Hai scelto uno stile colloquiale, semplice ma rigoroso, in cui ti rivolgi direttamente al lettore. Come mai?

R. E' lo stile che contraddistingue il mio modo di scrivere, quello di rivolgermi al lettore e di coinvolgerlo. Molti mi scrivono e mi dicono "mi sembrava di essere lì con te". Ecco, questo è il più grande complimento.

D. In un momento di povertà e bisogni urgenti di sopravvivenza, in che modo il tuo dizionario si propone di aiutare, offrendo un valore aggiunto alla lotta per i diritti dei Nativi Americani e differenziandosi dalle iniziative di altre organizzazioni umanitarie?

R. Bisogna distinguere tra aiuto culturale e identitario di riscatto da un violento passato di assimilazione culturale e aiuto concreto e finanziario. Oggi, a mio parere, è ancora ben difficile costruire una rete di solidarietà economica a favore dei popoli indigeni. Soprattutto oggi, che siamo immersi in una crisi globale. La solidarietà culturale passa, in Italia, attraverso i cuori di chi ama i Nativi Americani, in special modo. Le organizzazioni umanitarie mondiali si occupano di altro, ma l'ONU, ad esempio, appoggia iniziative come quella del dizionario, infatti la sua presentazione è stata inserita nel calendario degli eventi per la salvaguardia delle lingue indigene dell'UNESCO.


D. I Crow hanno scelto la sopravvivenza, i Lakota la libertà. In che punto queste due popolazioni antagoniste sono riuscite ad incontrarsi per riconciliarsi e curare le ferite del passato?

R. Oggi le tribù di Nativi Americani condividono gli stessi problemi, e sono unite nel salvaguardare i propri valori. I Crow e i Lakota, storicamente nemici, oggi hanno certo alcune differenze che li distinguono, ma poi rimane la base della tutela della cultura, della terra, della tradizione. In realtà, sono molto più simili tra di loro che non confrontati ad altre tribù . E' un discorso  molto lungo. Fondamentalmente, i Crow rimangono sempre in buoni rapporti col Governo statunitense. I Lakota sono, invece, i guerrieri, i contestatori, vedi ad esempio il caso del lockdown per il coronavirus: gli Oglala Lakota si sono opposti al Governatore del Sud Dakota all'apertura delle strade nelle loro riserve, perchè hanno deciso di continuare a salvaguardare la salute dei propri membri.




D.  A noi, così diversi culturalmente ed emotivamente, cosa può insegnare il reale recupero di questa memoria storica?

R. La cosa più importante è il loro rispetto della terra e dell'ambiente. Ad esempio tra loro ci sono i "Protettori dell'Acqua", persone che sono scelte per salvaguardare l'Acqua che per loro è un'entità viva, portatrice di vita. Il fatto poi che non siano avidi di denaro, e che non sfruttino le risorse del territorio per ricavarne denaro, è un valore molto prezioso e tutti dovremmo interrogarci a tal proposito, come racconto nel mio Liberi di non Comprare.

martedì 16 giugno 2020

Acquerello: un incontro di sapori ed esperienze affacciati sul Vesuvio, tra terra e cielo

Acquerello. Il nome può riferirsi ad una serie di alchimie e sintonie possibili. A tratti impensate ed a tratti magiche. Innanzi tutto la collocazione. Il ristorante lounge bar, infatti, è ospitato in un centro commerciale, quello delle Pendici ad Ercolano in via Sacerdote Benedetto Cozzolino, 86.

Marc Augè parlava di questi luoghi come macroaree spersonalizzate ed anonime, i cosiddetti non-luoghi, ma questo nucleo di aggregazione è, invece, una perla nascosta, che non ti aspetti, raffinata ed accogliente, con una terrazza sospesa su un panorama mozzafiato: il mare che lancia uno sguardo languido al Vesuvio pronto a tingersi con i colori del tramonto, in un abbraccio carico di desiderio.

E' come la pentola d'oro dei folletti posta ai piedi dell'arcobaleno o il tesoro dei pirati sotterrato e, poi, svelato o, ancora, un diamante puro che viene nutrito nel buio della terra e rimane celato allo sguardo.



A caratterizzarlo un mix di adeguate distanze, che addirittura, nel momento ideativo, hanno preceduto la fase coattiva del distanziamento sociale, per assicurare il giusto grado di comfort, privacy ed intimità ai commensali, senza abdicare ad uno squisito senso di accoglienza e di condivisione.

Poi il gusto, quello che avvolge e vizia le papille gustative, senza scontentare mente e cervello: una sapiente miscellanea di sapori, odori, consistenze e tradizioni culturali e culinarie. Un ponte teso tra Oriente e Occidente, tra food & beverage.

Acquerello e anche mistione di competenze che si declinano alla voce gioco di squadra. Gli ideatori, i fratelli Stefano e Luigi Irollo, cui si aggiunge la mano del loro papà, con la loro propositività contagiosa e coraggiosa. La brigata di cucina, capitanata da Antonio Borrelli. Il personale di sala coordinato dal maitre Gianluigi Dattero e dal sommelier Michele Fontanella. La direzione spetta a Damiano De Luca.

Una sintesi di accoglienza e professionalità, qualità della cucina e del servizio con prestazioni tecniche di alta resa.

Per chi voglia vivere l'esterno magnifico della terrazza ma è freddoloso, e non ami il freschetto serale, in arrivo plaid e copertine per coccolarlo. Per garantire il distanziamento sociale, ma anche per abbattere l'impatto ambientale (zero spreco di carta, soprattutto tenendo conto dell'aggiornamento costante dei menù, atto a valorizzare la stagionalità degli ingredienti) il ricorso al QR code e a dispositivi elettronici collegati direttamente con il registratore di cassa. Sul fronte del servizio un gemellaggio tra quello all'italiana, al piatto, e quello alla francese con l'utilizzo di carrelli da portata.

Un connubio che consente di ottenere un servizio altamente attento e personalizzato, capace di  ritrovare il gusto dell'andar lenti, come direbbe il sociologo Franco Cassano, per gustare sapori, inebriarsi di odori ed effluvi; apprezzare croccantezze e consistenze; ripulire il palato con vini di nicchia e cocktail energizzanti, che diventano accompagnamento di metà pasto e non solo aperitivo o bicchierino della staffa.



"Acquerello è un progetto sospeso sull'orlo del lockdown - spiega Stefano Irollo -  bloccato da un fulmine a ciel sereno. Abbiamo voluto trasformare regole e canoni da rispettare in un ulteriore modo per far star bene i clienti e convertire un momento assurdo in un'opportunità".

Un momento difficile che, secondo i fratelli Irollo,  può tramutarsi in uno strumento utile a "disciplinare" i clienti più irruenti ed a trasmettere le regole del buon vivere e dell'educazione civica.

"Abbiamo tanta strada da fare - continua Luigi Irollo - e da perfezionare, ma altresì, abbiamo buone intenzioni ed un ottimo potenziale".

A ribadirlo è lo chef Antonio Borrelli che sottolinea come appaiano centrali per crescere insieme l'ambizione e il tendere sempre al miglioramento, attraverso un gioco di squadra tra la parte imprenditoriale, la cucina e la sala.

"Il cibo e gli ingredienti - spiega - non vanno manipolati troppo. Occorre puntare sui metodi di cottura, di varia natura, sui processi di fermentazione, su ingredienti come tonno, cipolla, maionese, sull'affumicatura alla mela annurca e su quella nota di freschezza capace di fare la differenza".

Ne nasce un sapiente equilibrio tra tradizione ed un tocco di innovazione, incastonato nella bellezza del territorio vesuviano, da cui Antonio Borrelli, assieme alla sua brigata di cucina, trae gli ingredienti base dei sui piatti, pensati per rispettare e valorizzare il naturale alternarsi delle stagioni ed i doni della terra e del mare.

A stupire il palato non sono solo i piatti, sapientemente accompagnati da calici di nicchia, ma anche i soft drink, frutto della maestria del bar manager Elpidio dell'Aversano.

"Noi cerchiamo - racconta - sentori e rivisitazioni di classici, per esaltare il piatto, pulire il palato ed accompagnare il pasto".

Lo scopo è quello di accontentare tutta la fascia di clientela, dai gusti davvero diversificati.

IL MENU

L'Entree di benvenuto prepara il palato alle successive leccornie.

Da una parte abbiamo i panini al limone, che concentrano tutto l'odore e il sapore di questo agrume, rigorosamente preparati dallo chef.  Dall'altra la pagnotta multicereali e le schiacciatine, un mix di croccantezza e morbidezza da intingere in olio toscano dell'Azienda agricola Ornellaia, a basa acidità, con un retrogusto dolce e fruttato.

-Il cubo di tonno rosso glassato all'amarena su cialda soffiata al nero di seppia.
-Il sashimi di spigola, concasse’ di pomodoro ramato, maionese all’aglio, gel di pomodoro, consomme’ di acqua pazza e fresella sbriciolata, che richiama la panzanella.
Se il metodo di preparazione allunga lo sguardo verso l'Oriente e le sue tradizioni, all'insegna della cucina fusion, il taglio è squisitamente italiano.

L'abbinamento è con un Fiano doc dell'azienda agricola La Matta di Salerno. Si tratta di un vino bio spumantizzato, a fermentazione naturale direttamente in bottiglia con metodo ancestrale, preparato tra l'ultima luna e la luna nuova. A questo vino non filtrato, che quindi appare torbato, vengono aggiunti accortamente lieviti e zuccheri per farlo fermentare più velocemente.



-Il tataki di tonno rosso affummicato, maionese al lime, cipolla di tropea fermentata, fagiolini croccanti, polvere di origano e chips di wasabi.
-Le linguine alla scapece, menta glaciale, fiore cristallizzato e crudo di scampo.
In abbinamento un Verdicchio Classico superiore dei Castelli di Jesi, un nettare dal colore giallo paglierino, il solo bianco tanninico. La nota olfattiva è caratteristica, ma delicata. Il gusto è secco, corposo, compatto ed armonioso.

-Il filetto di pesce azzurro, salsa tiepida allo zafferano, sfoglia di cipollotti dell’agro-nocerino e insalatina di ceci.
In abbinamento il cocktail studiato dal bar manager Elpidio Dell’Aversano: è il Golden Sea. Un agrumato, capace di pulire la sapidità del palato, con una nota fresca e raffinata. Una versione sofisticata della limonata, dal gusto piacevolmente più carico, in grado di immergere gli astanti nei ricordi d'estate.



- La degustazione di piccola pasticceria: un bon bon che è un esplosione di sapore tra latte di bufala e limone. Per proseguire con una poesia, di formato più grande, ricoperta al mango. Ed ancora, un babà carico di tradizione, con la bagna al rum che rende il tutto morbido ed inzuppato al punto giusto, senza "affogarlo", rendendolo molliccio. 
In chiusura di sapori (che potrebbe essere anche apertura... ad ognuno la scelta delle sue tappe del gusto) una coda d'aragosta scrocchiarella, farcita con una panna così delicata, leggera e gustosa da essere una carezza per lo stomaco ed il palato.

In abbinamento un Pedro  Ximenez Fernando De Castilla, un passito in grado di fidelizzare, creando un'alleanza imperitura, anche i più allergici alle note alcoliche di fine pasto.

Se dovessi definire queste pietanze direi che hanno molte storie da raccontare. Li definirei piatti di relazione. Quelli che fanno dialogare ingredienti e competenze. Quelli vivi e pieni di passione, che non hanno ceduto alla routine del mestiere e ai ritmi di una quotidianità stanca, da catena di montaggio.
Quelli creati da coloro nei cui occhi e nel sorriso, che li accompagna nella fase di ideazione, di realizzazione e nel servizio,  puoi leggere il sacrificio, la rinunce ma anche la sfida, la voglia di sperimentare e di farcela, rimaste vive e vivide o rinate, come un'araba fenice, nonostante le difficoltà.

** Si ringrazia per le foto condivise Giuseppe De Carlo

giovedì 4 giugno 2020

La rivincita: la speranza che sopravvive al dolore


E’ disponibile gratuitamente da oggi, giovedì 4 giugno, su Raiplay il film La rivincita per la regia di Leo Muscato con Michele Venitucci, Michele Cipriani, Deniz Özdoğan, Sara Putignano, e con la partecipazione di Giuseppe Ciciriello, Vittorio Continelli, Francesco DeVito, Franco Ferrante, Domenico Fortunato. 



Una produzione Altre Storie con Rai Cinema Channel, prodotto da Cesare Fragnelli e realizzato con il contributo della Regione Puglia e di Apulia Film Commission.
Un film popolato da archetipi, come spiega Michele Santeramo, autore dell’omonimo libro da cui la pellicola è tratta. I protagonisti sono i cosiddetti nuovi poveri, quelli che si sono sentiti risucchiare da un presente senza certezze e da un futuro senza apparente speranza.

“Ho voluto puntare lo sguardo – spiega Santeramo – su un segmento ed un territorio ristretti, così da aver modo di arrivare fino in fondo, di scavare in profondità, intercettando sentimenti che possono diventare universali”.

E’ quello che accade, ad esempio, con il vecchio contadino che piange di fronte al taglio dei suoi olivi secolari. Il suo sguardo pieno di sofferenza e sdegno e  l’anatema “Vergonatevi!” gridato verso gli esecutori di un vero e proprio martirio, l’unica forma di ribellione che gli viene concessa mentre lo trascinano via, ci fa entrare nel cuore pulsante e sanguinante di un dolore vivo e ci spinge a considerare chi compie quell’azione truce al pari di un assassino. 



 Ad abitare il film sono quelli che devono lottare, come ricordano i protagonisti, per l’ottenimento delle cose più normali e per trovare, scavando e ferendosi le mani, alcune risorse insperate. Andando al di sotto ed oltre la superficie, come sottolineano gli ideatori, questo film rivela di essere anche e soprattutto un film sull’amore incondizionato, capace di sopravvivere al dolore ed alla disperazione.

Secondo Elena Capparelli, direttore di Rai Digital, è fondamentale che si sia aggiunto un altro tassello, un altro sguardo, un’altra prospettiva orientata verso un’umanità che non può mai riposare.

A conferire ai personaggi, già di per sé brechtianamente di carattere,  ulteriore spessore, ci pensano gli attori, un nucleo portante di estrazione teatrale, come evidenzia il regista, che con un apparente minimo sforzo riescono a raggiungere la massima resa emotiva, toccando tutte le corde dell’interiorità. 

La pellicola, come ribadisce Muscato, coagula pezzi di anima e di sentimento di cui gli attori si fanno vettori per arrivare allo spettatore.



“I due fratelli – evidenzia Michele Venitucci – rappresentano due personaggi complementari, la cui esistenza è necessaria e speculare l’una all’altra. Pur trattandosi di una sorta di personaggi verghiani della contemporaneità, estremamente realistici, la cifra narrativa è diversa e si innesta sui sentimenti, non seguendo necessariamente la strada lineare della verosimiglianza. Essi appartengono ad un luogo e ad un tempo, per quanto non sia esplicitata alcuna datazione, ma potrebbero benissimo essere senza tempo ed abitare un non luogo, un qualsiasi Sud del mondo”.

I protagonisti, secondo quanto ribadisce Cipriani, sono “uomini di carattere”, che posseggono sogni semplici, ma molto forti e voluti. Sogni che diventano una missione da perseguire, i cui artefici non abdicano mai a specifiche caratteristiche morali ed etiche.

Anche quando, per causa di forza maggiore, provano a percorrere la strada del compromesso, non arrivano mai all’abbrutimento totale e non rinunciano alla loro radice salda di profonda umanità e compassione.



“Non appare prevalente – continua Cipriani – l’adozione di un approccio realistico nella costruzione del personaggio. Ognuno conosce o è entrato in contatto con storie simili, ma nella narrazione si è provato a non generalizzare, bensì a raccontare questa specifica storia anziché quella dello stereotipo del povero sfortunato”.

Se i personaggi maschili appaiono speculari, lo stesso processo si attiva per quelli femminili, che incarnano due modi opposti di vivere la maternità. 

“Si tratta di una storia – dice Deniz Özdoğan -  che nutre un seme potente, tale da delineare un suo percorso. Una storia bella, umile, audace che, grazie a questo mix di elementi, riesce ad arrivare alla gente. Il mio personaggio rivoluziona la storia, ma in maniera serena, come acqua che scorre”. 



Per Sara Putignano, invece, si tratta dell’incarnazione di una maternità fallimentare, incasellata in una sorta di non famiglia, che contraddice i canoni sociali di maternità.

“La donna che interpreto – racconta Sara – compie un percorso intenso. La sua dinamica relazionale genera implosione. Ha un passato che compromette il suo rapporto con la maternità e solo alla fine riuscirà a dialogare davvero con gli altri ed a rapportarsi con la realtà che vive”.

Interessante entrare anche nella psicologia e nelle sfaccettature della narrazione dei cattivi della storia, che sono portatori di un’anti-etica paradossalmente dominata dai concetti di onore verso gli impegni ed educazione.

“Si tratta di un film – rimarca Domenico Fortunato – al contempo attualissimo ed universale. Alcuni personaggi che appartengono alla malavita organizzata allungano la loro presa tentacolare su un territorio, vi penetrano, spesso, in maniera silente, ma capillare ed inesorabile e riescono a coinvolgere anche persone perbene, facendo loro credere, attraverso il richiamo ad un concetto distorto d’onore, di essere nel giusto”.




Come si possono demistificare questi antieroi, togliendo loro potere?

Ad indicare una strada possibile è Franco Ferrante: “Occorre farne vedere e comprendere l’intrinseco ridicolo. Non sono eroi né antieroi: sono solo dei vigliacchi”.

La Rai attraverso la piattaforma Raiplay, in relazione a quanto spiega Paola Malanga, vice direttore, Produzione e Acquisti  Rai Cinema, amplia la propria offerta di storie e sentimenti che riguardano tutti. Lo fa all’indomani di una quarantena che, per alcuni versi, ha offerto un’occasione straordinaria, per poter sviluppare la fruizione di una piattaforma che consente ad un pubblico trasversale, che per un insieme di ragioni non riesce ad andare al cinema, di fruire di un’ampia scelta di pellicole di elevata qualità. 

Se è vero, come evidenzia, che la fruizione rimane ‘isolata’, è altrettanto vero che i collegamenti e le condivisioni si possono creare ed alimentare attraverso i social. In questo modo, nonostante sia un momento di sofferenza del cinema, i film trovano il modo di sopravvivere con una vitalità forte.

Solo nella scena finale la musica finalmente esplode, in maniera catartica e liberatoria: si tratta di “No potho reposare”, una melodia tradizionale sarda densa, potente, che richiama la forza delle radici e delle origini, interpretata e arrangiata dal trombettista Paolo Fresu.



“Nelle sequenze precedenti – spiega il regista – non vi era nessuna musica, perché non vi era bisogno di aggiungere altri elementi di emotività rispetto a quelli messi in campo dagli attori”.