lunedì 14 luglio 2014

Caravaggio: la misericordia trasfusa in luci ed ombre

A via Tribunali 253, in una piccola chiesa all’interno del Pio Monte di Misericordia (http://www.piomontedellamisericordia.it/) , è custodito un quadro, un piccolo gioiello in grado di emozionare e di riempire gli occhi, tanto da far pensare di essere vittime della sindrome di Stendhal.



E’ il quadro Le opere di Misericordia di Michelangelo Merisi da Caravaggio, più noto semplicemente come Caravaggio.

L’opera fu commissionata al pittore durante un suo soggiorno partenopeo e realizzata tra il 1606 ed il 1607 (durante il primo soggiorno, il secondo ci sarebbe stato tra il 1609 ed il 1610), su incarico della Congregazione del Pio Monte della Misericordia per volere di Luigi Carafa-Colonna, membro della stessa, la cui famiglia protesse Caravaggio nella sua fuga da Roma.

Nell’opera si vede un uso dei chiaroscuri tipici della pittura caravaggesca portato ad un livello magistrale.

E’ come se  un lampo di luce, un flash ante litteram, illuminasse i vari personaggi, intenti ad interagire in uno scorcio di un vicolo partenopeo,e li immortalasse nelle loro posizioni.

I personaggi, come sottolinea Luigi Auriemma, artista ed esperto d’arte, sono fermi, "congelati" nell’attimo in cui sono stati ritratti, ma nei loro movimenti si intuisce un’azione concitata, un pullulare di vita e di suoni... Forse da qualche parte vi è anche un menestrello che in un viuzza laterale suona e canta la storia della Città delle Sirene.



L’azione è improntata ad una grande dinamicità con gli angeli della parte superiore che si abbracciano e che con le braccia e le ali, ma anche grazie alla nuvola che sorregge la Vergine con il bambino, creano una sorta di girandola..

Come se i protagonisti fossero avvolti da un vento, di dantesca memoria, che li sospinge e li trasporta.

Il braccio di uno dei due angeli proiettato verso  il basso è il punto di raccordo tra cielo e terra. 

La mano ha una posa ardita, una scelta, ancora una volta, pittoricamente coraggiosa, una sfida e che vuole superare il “limite”.

“La mano e le dita – continua Auriemma – sono puntate verso lo spettatore, una sorta di artiglio”.



Nella parte inferiore, quella terrena, è tutto più statico. A colpire lo spettatore è l’alternanza di luce ed ombra con cui Caravaggio seziona letteralmente il corpo. 

La parte colpita dalla luce, infatti, è riprodotta fedelmente con i muscoli e la colonna vertebrale riprodotte nella loro anatomia, mentre la parte in ombra sembra scomparire, quasi come se non esistesse.

Non solo l'alternanza di luci ed ombre seziona il corpo ma c'è un altro esempio di maestria e consapevolezza nell'uso del colore e delle forme.

Infatti,  la scena è composta attraverso un perfetto gioco di simmetrie, di incastri geometrici e di rimandi interni.

Basti pensare al corpo della donna che allatta il padre (opera di misericordia: dare da mangiare agli affamati e sollievo ai carcerati) la cui mano è appena abbozzata.

“E’ il nostro cervello – continua lo storico dell’arte – ad intuirne la presenza. La nostra mente, gestalticamente, dà corpo ad una qualità emergente”.

Ci sono poi alcuni personaggi comprimari di cui si vedono solo alcune parti anatomiche, un piede o una gamba, seminascoste. 

Ad esempio una testa ricciuta, con un collo appena accennato ed un orecchio, che ad un occhio meno attento potrebbe sembrare un pezzo del mantello di uno dei personaggi in primo piano.

“Quell’orecchio a mio parere – sottolinea Auriemma – è ricettore e cassa di risonanza di tutti i suoni, il vociare, i rumori che si coagulano nel vicolo”.

Ed ancora i piedi che spuntano da sotto ad un lenzuolo, forse quelli dei una delle tante vittime della peste (opera di misericordia: dare degna sepoltura ai morti).

Anche in questo dipinto Caravaggio, come ribadisce l’esperto d’arte, si dipinge tra i personaggi, anche se leggermente defilato.



E’ il suo stratagemma per attuare una sorta di “osservazione partecipante”, per essere contemporaneamente nel cuore dell’opera , guardando dall’interno all’esterno l’effetto che essa produce sugli spettatori, ed esterno, colui che dipingendo lo scenario contribuisce a dargli vita ed a popolarlo.

Al cospetto di un tale fulgore impallidisce anche un’opera di pregio come La liberazione di San  Pietro  di Battistello Caracciolo.

L’opera, che pure è figlia della lezione di Caravaggio, tant’è vero che Giovanni Battista Caracciolo può essere definito a  tutti gli effetti un caravaggesco, pur recando traccia della gestione del colore di Michelangelo Merisi, che è stata ben appresa, è come coperta da una patina che ne offusca il brillio, uno spesso strato di polvere che opacizza il tutto, ed una morsa che blocca i personaggi in una gabbia statica.



Nel guardare l’opera di Caravaggio ci si sente avvolti da un alone di magia e proiettati indietro di oltre 4 secoli.

Perché ogni opera ha la sua storia, le sue storie, da raccontare.

“In ogni opera ci sono più strati – conclude Auriemma -. La parte dipinta, attraverso le forti pennellate materiche, è la pelle, il mezzo di contatto, il filtro tra interno del quadro ed esterno, tra chi guarda e l’oggetto di quello sguardo. Più sotto c’è tutto il mondo interno all’opera, i concetti che hanno contribuito a darle significato, che potremmo paragonare ai muscoli, ai tendini, allo scheletro”.

Come avviene per la pelle anche la parte esterna dell’opera è quella che è più soggetta alle intemperie ed ai graffi del tempo, che può rovinarsi, screpolarsi, persino arrivare a spaccarsi ed a "sanguinare", ma che è indispensabile per stabilire un contatto tra universi di senso e significato, per “sentire” e trasmettere le emozioni.


* Consulenza di Luigi Auriemma

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