giovedì 17 luglio 2014

Caravaggio: un'intervista impossibile ad un artista che visse tra genio e sregolatezza

Dopo la passeggiata al Pio Monte di Misericordia alla scoperta della bellezza materica e giocata sull'incastro tra luci ed ombre tipica della pittura di Caravaggio, ecco una un tuffo nella vita e nell'arte di Michelangelo Merisi fatto attraverso una chiacchierata con Luigi Auriemma, esperto d'arte e artista.

Quando ho chiesto a Luigi come mai un genio come Caravaggio fosse stato così autodistruttivo da morire per quella che tutto sommato er una bravata (un rapporto con un Cavaliere di Malta), mi ha risposto che il suo genio è imprenscindibile dalla sua sregolatezza, dalla sua vita portata sempre oltre il limite, oltre il confine.

Perchè solo una mente così, riottosa a qualsiasi regola ed imposizione, sempre pronta alla sfida, poteva avere le "carte in regola" per pensare in maniera davvero alternativa rispetto alla corrente di pensiero dominante, capace di concepire uno stile ed un'arte  in grado di nascere da una radice opposta rispetto all'asse notrmativo dell'epoca, capace di procedere in maniera antioraria.



A questo punto, l'impossibile diventa possibile, grazie ad un artista, Luigi Auriemma, legato alchemicamente all'arte di Caravaggio e profondamente "stregato" dalla sua personalità. 

Una personalità ed un'arte che Luigi Auriemma ha studiato ed approfondito progressivamente, in maniera diacronica, fino a giungere ad interpretazioni alternative ed "eccentriche", cioè non convenzionali, rispetto a quelle correnti dell'arte caravaggesca.

Interpretazioni e decodifiche che lo portano a vedere in Caravaggio una sorta di precursore del cubismo, per la sua capacità di scomporre il corpo unamo, ed un pittore concettuale, capace di svelare tutto l'universo di idee che sta dietro la parte più esterna del dipinto, quella pellicola di colori che costituisce la pelle del quadro, dietro la quale ci sono i "muscoli, i tendini e le ossa", cioè tutto un universo di senso e significato.

Ed ora via libera alla nostra "intervista impossibile".




Grande artista ed uomo tormentato ed inquieto: come si sono esplicitate queste tensioni?


In ogni parte delle sue opere, nelle strutture, nelle composizioni, nel chiaroscuro, nei colori, nella materia della pittura, nel violento uso della luce rispetto alle tenebre: in ogni pelle delle sue opere.
Ogni pennellata di Caravaggio è “coscienziosa”, ogni pennellata porta dentro di se il suo respiro, il ciclo della velocità che compie il sangue nel proprio corpo: il colore è il suo sangue; l’energia della sua pennellata è la sua febbre, il suo tormento.




Oggi la nostra è una società conflittuale: piatta e priva di curiosità e sogni da una parte, irrequieta dall'altra, dissonante. Oggi cosa dipingerebbe ed in chi si riconoscerebbe Caravaggio?

Oggi Caravaggio sicuramente non dipingerebbe ma farebbe arte con la stessa forza, intensità creativa e lucidità temporale, vivendo a pieno questo tempo in tutte le sue problematiche, positive e negative. 

Ogni artista che ha una profonda coscienza di vivere il proprio tempo, consapevole di essere una parte (anche se minima) del grande ingranaggio che è l’universo, partecipa alle sue armonie. Caravaggio forse oggi sarebbe un artista multimediale, userebbe più tecniche per realizzare le proprie opere; intellettualmente sarebbe vicino ai più deboli e a i problemi più seri che compromettono il nostro pianeta, forse un ecosostenitore: un ecologista. Sarebbe un innovatore, un genio. Come in un film della metà degli anni ’80, molto interessante, la vita di Caravaggio è messa a confronto con la società contemporanea (“CARAVAGGIO” – regia di Derek Jarman -1986).




Caravaggio fu posto in opposizione con la pittura edulcorata ed idealizzata, celebrativa della potenza clericale. In realtà il suo portare in primo piano gli umili e gli ultimi proveniva da una profonda conoscenza delle scritture. Gli ultimi di cui parla anche papa Francesco.

Perché questa dicotomia tra visioni ecclesiastiche?

Le due diverse visioni nascono dall’esigenza da parte della Chiesa come istituzione di sostenere un’immagine edulcorata della religione, positiva, potente, invece Caravaggio realizza le sue opere traendo ispirazione direttamente dalle Sacre Scritture. 

Si rivolge direttamente alla parola di Dio e non a quella degli uomini, anche se uomini di chiesa. Caravaggio conosceva sicuramente le Sacre Scritture. È documentato che Simone Peterzano, maestro di Caravaggio soleva dire all’allievo che per diventare un bravo pittore bisognava conoscere profondamente “il colore e le Sacre Scritture”.

Portare in primo piano contadini con piedi sporchi, poveri con vestiti laceri non rappresenta un senso di ribellione verso la Chiesa (al committente che più volte ha rifiutato le opere commissionate) bensì l’adesione fedele alle Sacre Scritture dove analfabeti, contadini e pastori sono testimoni della parola di Dio.




Il genio per produrre finisce per distruggere se stesso. Perché?

Il genio alla nascita porta già in se una forza naturale produttrice e che nel prodursi va verso la distruzione di se stesso. Il genio trasforma attraverso la sua produzione la distruzione dell’effimero a favore della sua immortalità.




Ogni opera proietta sulla tela frammenti di vita e di percorso umano ed emotivo. Quali i moti dell'animo di Caravaggio che si ritrovano sulla tela, nel colore e nelle nuove prospettive utilizzate?

Con Caravaggio si ha un profondo cambiamento nella concezione dell’arte. Caravaggio comincia a non rappresentare ma a presentare, introduce un verbo molto caro a quasi tutte le avanguardie storiche e all’arte contemporanea.

Caravaggio inserisce nelle proprie opere il tempo, non quello sequenziale come nei grandi “racconti”, contro la stasi dell’arte precedente dove ogni gesto era fermo, bloccato. Inserisce la velocità, il tempo attuale l’attimo, l’istante (come nella “Cena in Emmaus” dove il cesto di frutta dipinto è bloccato un attimo prima di cadere dal tavolo) . 

Inserisce la concitazione del momento, i gesti: la velocità di essi. I personaggi di Caravaggio non comunicano con la voce ma con i gesti: sostituisce il linguaggio verbale con i linguaggio dei segni. La sofferenza, le urla, il dolore dei personaggi presenti nelle opere sono trasformate in gesti (come in un film muto). 

Noi fruitori udiamo tutto ciò non attraverso l’orecchio ma attraverso la vista. Nella tela delle “Sette opere di Misericordia” Caravaggio ci mette di fronte ad un orecchio che sbuca dalle tenebre che probabilmente non appartiene a nessun personaggio ( almeno visibile) ma sta lì ad ascoltare il clamore, il chiasso, il rumore di quella scena e noi fruitori proprio attraverso la visione di quell’orecchio, trasformato in un megafono possiamo ascoltare i suoni di quella scena. È un quadro che parla, che sente, di cui noi possiamo attraverso il senso della vista ascoltarne le voci.



Caravaggio è presente in varie sue opere, sempre nelle “Sette opere di Misericordia” è fra gli astanti; è testimone di quello che sta accadendo, non rappresenta da spettatore ma presenta da testimone, come se quella scena si fosse svolta lì per la prima volta, in quel momento attuale, in quell’istante. 

Tema molto amato da molti artisti contemporanei.

Le scene si appiattiscono, la profondità prospettica viene assorbita dal nero delle tenebre, viene portato quanto più possibile in primo piano: lo sfondo diventa fondo. La scena squarciata da questi improvvisi lampi di luce che più che costruire le figure le lacera, le smembra, le disseziona come il bisturi di un chirurgo, così come nelle avanguardie storiche del primo novecento Apollinaire dirà dei pittori cubisti e in particolar modo di Picasso “studia un oggetto come un chirurgo disseziona un cadavere” [1]

Anche in letteratura, specialmente nella poesia futurista russa dove nel testo “Parola come tale” poeti come Kruchenykh e Chlebnikow spiegano che “i pittori budetljàne amano utilizzare parti del corpo, sezioni, mentre i budetljàne creatori di parole amano servirsi di parole squartate, di mezze parole e delle loro bizzarrie e astute combinazioni”[2]

Allo stesso modo l’unica natura a cui si riferiscono i cubisti è quella “morta”, proprio come quella che predilige Caravaggio rendendola soggetto autonomo e ponendola in primo piano con la stessa dignità degli altri suoi personaggi.




Caravaggio il contestatore, che si faceva beffe dl potere costituito, che voleva uscire a tutti i costi dalle regole e da una vita tranquilla. Cosa penserebbe della nostra scena privata, incapace di vivere davvero emozioni e sentimenti, e della nostra scena pubblica, fatta di beghe, di veleni e colpi bassi (riassunti da Battiato nella sua frase al centro di polemiche?)

Caravaggio si butterebbe nella mischia e risponderebbe con un sorriso beffardo.


[1]  G. Apollinaire – I pittori cubisti – 1996 – Milano – SE
[2] “Parole come tale” in G.Kraiski – Le poetiche russe del novecento – 1968 –Bari - Laterza

lunedì 14 luglio 2014

Caravaggio: la misericordia trasfusa in luci ed ombre

A via Tribunali 253, in una piccola chiesa all’interno del Pio Monte di Misericordia (http://www.piomontedellamisericordia.it/) , è custodito un quadro, un piccolo gioiello in grado di emozionare e di riempire gli occhi, tanto da far pensare di essere vittime della sindrome di Stendhal.



E’ il quadro Le opere di Misericordia di Michelangelo Merisi da Caravaggio, più noto semplicemente come Caravaggio.

L’opera fu commissionata al pittore durante un suo soggiorno partenopeo e realizzata tra il 1606 ed il 1607 (durante il primo soggiorno, il secondo ci sarebbe stato tra il 1609 ed il 1610), su incarico della Congregazione del Pio Monte della Misericordia per volere di Luigi Carafa-Colonna, membro della stessa, la cui famiglia protesse Caravaggio nella sua fuga da Roma.

Nell’opera si vede un uso dei chiaroscuri tipici della pittura caravaggesca portato ad un livello magistrale.

E’ come se  un lampo di luce, un flash ante litteram, illuminasse i vari personaggi, intenti ad interagire in uno scorcio di un vicolo partenopeo,e li immortalasse nelle loro posizioni.

I personaggi, come sottolinea Luigi Auriemma, artista ed esperto d’arte, sono fermi, "congelati" nell’attimo in cui sono stati ritratti, ma nei loro movimenti si intuisce un’azione concitata, un pullulare di vita e di suoni... Forse da qualche parte vi è anche un menestrello che in un viuzza laterale suona e canta la storia della Città delle Sirene.



L’azione è improntata ad una grande dinamicità con gli angeli della parte superiore che si abbracciano e che con le braccia e le ali, ma anche grazie alla nuvola che sorregge la Vergine con il bambino, creano una sorta di girandola..

Come se i protagonisti fossero avvolti da un vento, di dantesca memoria, che li sospinge e li trasporta.

Il braccio di uno dei due angeli proiettato verso  il basso è il punto di raccordo tra cielo e terra. 

La mano ha una posa ardita, una scelta, ancora una volta, pittoricamente coraggiosa, una sfida e che vuole superare il “limite”.

“La mano e le dita – continua Auriemma – sono puntate verso lo spettatore, una sorta di artiglio”.



Nella parte inferiore, quella terrena, è tutto più statico. A colpire lo spettatore è l’alternanza di luce ed ombra con cui Caravaggio seziona letteralmente il corpo. 

La parte colpita dalla luce, infatti, è riprodotta fedelmente con i muscoli e la colonna vertebrale riprodotte nella loro anatomia, mentre la parte in ombra sembra scomparire, quasi come se non esistesse.

Non solo l'alternanza di luci ed ombre seziona il corpo ma c'è un altro esempio di maestria e consapevolezza nell'uso del colore e delle forme.

Infatti,  la scena è composta attraverso un perfetto gioco di simmetrie, di incastri geometrici e di rimandi interni.

Basti pensare al corpo della donna che allatta il padre (opera di misericordia: dare da mangiare agli affamati e sollievo ai carcerati) la cui mano è appena abbozzata.

“E’ il nostro cervello – continua lo storico dell’arte – ad intuirne la presenza. La nostra mente, gestalticamente, dà corpo ad una qualità emergente”.

Ci sono poi alcuni personaggi comprimari di cui si vedono solo alcune parti anatomiche, un piede o una gamba, seminascoste. 

Ad esempio una testa ricciuta, con un collo appena accennato ed un orecchio, che ad un occhio meno attento potrebbe sembrare un pezzo del mantello di uno dei personaggi in primo piano.

“Quell’orecchio a mio parere – sottolinea Auriemma – è ricettore e cassa di risonanza di tutti i suoni, il vociare, i rumori che si coagulano nel vicolo”.

Ed ancora i piedi che spuntano da sotto ad un lenzuolo, forse quelli dei una delle tante vittime della peste (opera di misericordia: dare degna sepoltura ai morti).

Anche in questo dipinto Caravaggio, come ribadisce l’esperto d’arte, si dipinge tra i personaggi, anche se leggermente defilato.



E’ il suo stratagemma per attuare una sorta di “osservazione partecipante”, per essere contemporaneamente nel cuore dell’opera , guardando dall’interno all’esterno l’effetto che essa produce sugli spettatori, ed esterno, colui che dipingendo lo scenario contribuisce a dargli vita ed a popolarlo.

Al cospetto di un tale fulgore impallidisce anche un’opera di pregio come La liberazione di San  Pietro  di Battistello Caracciolo.

L’opera, che pure è figlia della lezione di Caravaggio, tant’è vero che Giovanni Battista Caracciolo può essere definito a  tutti gli effetti un caravaggesco, pur recando traccia della gestione del colore di Michelangelo Merisi, che è stata ben appresa, è come coperta da una patina che ne offusca il brillio, uno spesso strato di polvere che opacizza il tutto, ed una morsa che blocca i personaggi in una gabbia statica.



Nel guardare l’opera di Caravaggio ci si sente avvolti da un alone di magia e proiettati indietro di oltre 4 secoli.

Perché ogni opera ha la sua storia, le sue storie, da raccontare.

“In ogni opera ci sono più strati – conclude Auriemma -. La parte dipinta, attraverso le forti pennellate materiche, è la pelle, il mezzo di contatto, il filtro tra interno del quadro ed esterno, tra chi guarda e l’oggetto di quello sguardo. Più sotto c’è tutto il mondo interno all’opera, i concetti che hanno contribuito a darle significato, che potremmo paragonare ai muscoli, ai tendini, allo scheletro”.

Come avviene per la pelle anche la parte esterna dell’opera è quella che è più soggetta alle intemperie ed ai graffi del tempo, che può rovinarsi, screpolarsi, persino arrivare a spaccarsi ed a "sanguinare", ma che è indispensabile per stabilire un contatto tra universi di senso e significato, per “sentire” e trasmettere le emozioni.


* Consulenza di Luigi Auriemma

domenica 8 giugno 2014

L'ego in vetrina: è la produzione seriale di Andy Warhol

La mostra “Vetrine” dedicata ad Andy Warhol e curata dal critico d’arte Achille Bonito Oliva, inaugurata il 18 aprile e che sarà visitabile fino al 20 luglio, è un viaggio nel genio di Warhol e nella sua concezione della società, dipanato in ben 180 espressioni della sua produzione. Location il Pan, il Palazzo delle Arti partenopeo, in via dei Mille, 60.



Warhol, padre, della pop art (arte popolare), introduce con forza il concetto di arte seriale, un’arte che può moltiplicarsi all’infinito, identica a sé stessa o con poche varianti sostanziali.



“Il pennello è frutto di produzione industriale, così come la tela – scrive -. Di conseguenza anche il suo prodotto, ossia l’arte, è industriale”.

Con la sua ottica dissacrante Warhol sovverte il concetto di un’opera d’arte frutto del genio artistico unico ed irripetibile, di un’arte frutto di un talento di matrice artigianale e quindi inimitabile.

Figlio e rappresentante del consumismo americano e del trittico produzione –consumo-successo Warhol afferma che “agli Americani non piace vendere, preferiscono buttare, al contrario di Europei ed Orientali, che sono sempre intenti a mercanteggiare e contrattare, mentre gli Americani amano comprare: beni, gente e Paesi”.

Figura eclettica, Warhol naviga a vista in tutte le arti figurative (pittura, scultura, fotografia, cinema) e le contamina con altri linguaggi come la musica.



Nella sua Factory, nata da un’idea di “comunità” dove il talento sia messo in comune e le opere siano liberamente fruibili, alleva giovani artisti: da Basquiat, padre della street art, a Keith Haring.

Giovani talenti che collaborano alla stesura della sua rivista Interview.

Partito dal mondo della pubblicità, illustrando le copertine di dischi famosi come quelli dei Rolling Stones, dei Velvet Underground, di Paul Anka (The Painter) e di molti altri approda all’allestimento di vetrine dove comincia ad inserire sculture ed exhibit dalla funzione più propriamente artistica.


Solo in una fase posteriore approda all’esposizione artistica di opere prodotte per il loro valore artistico intrinseco (seppur seriale).

Ciononostante non disdegna di tornare a fare incursioni nel mondo della pubblicità e delle vetrine anche in fasi posteriori quando ormai si è affermato artisticamente.

Non a caso dice “Ho cominciato a fare soldi per la produzione industriale, voglio morire facendoli nel mondo del business” e ancora “Fare soldi nel mondo degli affari è la più grande forma di arte”.

Acutamente consapevole delle radici della morale, di matrice niezschiana, secondo cui “la morale non è nient’altro che un comportamento che le persone si auto impongono nel timore del giudizio degli altri e per soddisfarne le aspettative, Warhol traspone nella sua espressione artistica l’apoteosi del culto della personalità.



Ecco perché le persone si mettono “in vetrine” mostrando di sé solo quello che gli altri vogliono vedere, il lato più pubblico e “desiderabile” ed occultando la parte più fragile ed “oscura", ad arte.

Da una parte, campeggiano le sue foto trasformate in serigrafie (tecnica tipica dell’ambito tipografico seriale, dove tutto dev’essere perfettamente moltiplicato in esemplari identici), riprodotte con grandi e piccole variazioni di colore, uguali, eppure diverse nelle imperfezioni che vengono conservate. Appiattite in un’unica dimensione dove figura in primo piano e ombra “giacciono” sullo stesso livello.



 Dall’altra, con un ritorno all’ambito prettamente industriale, ci sono i suoi oggetti di uso quotidiano  fatti diventare opere d’arte, come i fustini del Brillo, le cassette in legno della Coca – cola con tanto di bottigliette, ed i barattoli ed i fusti della Campbells Soup.

Oggetti che a volte si limita a firmare altre volte riproduce serigrafandoli.

Nelle gigantografie dei visi da una parte egli prende delle persone (o per meglio dire personaggi) famosi nell’epoca e li rende icone eterne, protagonisti dell’immaginario collettivo: si pensi alle serigrafie policromatiche di Marylin Monroe.



Dall’altro dimostra come e il giusto tocco di glamour, e del maquillage, quindi con il giusto travestimento (si pensi alle sue opere di camouflage), tutti possano diventare dei vip.

E’ il caso delle serigrafie su commissione come quelle per i coniugi Bennardo, che divennero per l’artista una delle maggiori forme di guadagno.

Invece nei barattoli e nei fustini troviamo il culto del marchio aziendale. Ad esempio, la Campbells lanciò una campagna promozionale per la quale all’acquisto di cinque confezioni di zuppa si aveva in regalo un vestito con il suo marchio. Warhol, nella sua idea di riproducibilità, prese quel vestito, vi aggiunse la sua forma e le sue serigrafie più conosciute e ne fece un gadget “appettibile” da vendere, una sorta di status symbol.





La vanità umana… una delle maggior tentazioni…sia per vip che per gente comune… e Warhol lo sapeva bene e sapeva come “corteggiare” l’egocentrismo.

Alchemico il suo rapporto con Napoli che egli ritiene una città “unica e fantastica”, di cui adora i travestiti, i rifiuti ed i palazzi, dall’equilibrio precario, tenuti insieme con una corda.

Non a caso, grazie a Lucio Amelio ed al suo atelier artistico in piazza dei Martiri, una serie di artisti, con al centro Warhol, troveranno nel capoluogo partenopeo un luogo dove potersi esprimere liberamente e confrontarsi.

La contemporaneità è abitata da contraddizioni: nel suo affermare la democraticità dell’arte come serialità Warhol riafferma anche l’unicità dell’individuo e lo sottrae alla massificazione ed al tutto indistinto del nichilismo.

E’ il caso della figura dei trans, "i femminielli" che tanto lo affascinavano, che egli rende protagonisti delle sue opere, tanto nella versione partenopea, che in quella newyorchese delle Drag Queen dei club americani, rimarcandone la precisa connotazione sociale, antropologica, esistenziale ed economica.

La stessa operazione la fa nell’opera “Fate Presto”, dove prende una pagina del Mattino che parla dei ritardi dei soccorsi dopo il terremoto del 1980 (dopo diversi giorni si sentiva ancora gente che gemeva sotto le macerie in attesa di un soccorso latitante) e lo sdoppia nelle tre fasi dello sviluppo fotografico: il negativo, l’immagine in controluce che sta affiorando sulla pellicola e la pagina di giornale vera e propria, riprodotta in una gigantografia.





Protagonista indiscusso della sua opera è anche l’enorme vulcano che lo atterriva per la sua unicità (a New York potrebbe essere paragonabile solo all’Empire State Building, diceva) ed insieme lo affascinava (per me la forza di un’eruzione è paragonabile a quella della deflagrazione della bomba atomica).
Eppure nella sua mostra Terrae Motus, pur riconoscendo la forza terribile ed unica di questo gigante, lo rende riproducibile ed imitabile in serie e dimensione con poche o tante varianti di colore.







Tra i fattori in grado di “irretire” Warhol c’è il, visto anche qui come carnalità consumata in fretta e mercificata, come un atto meccanico e ripetitivo al pari dei gesti che si compiono nelle riproduzioni serigrafate.



Nelle copertine dei dischi da lui curate, introduce con forza ed in maniera esplicita l’elemento sessuale: si pensi alla Banana della copertina dell’album Velvet Underground & Nico, o ancora ai boxer che diventano protagonisti (fronte/retro) della copertina di un altro disco dove è riprodotto un jeans con tanto di zip vera. O ancora al riferimento fortemente sessuale nel suo film Blood for Dracula (Dracula cercò sangue di vergine e… morì di sete!) e di quello in cui riprende, con la telecamera fissa per ben 35 minuti,  l’espressione di un uomo, ripreso a pochi centimetri dal viso, (lo stesso modo che aveva di fotografare) che riceve una fellatio.

Figlio del funzionalismo americano, incentrato sulla misurabilità di ogni fenomeno di stampo positivista, suole dire “Non vi soffermate sul senso delle parole che la gente dice di voi ma misuratele in centimetri”.

Warhol è tra gli artefici non solo del ponte gettato tra Napoli e New York, tra similitudini e differenze, ma anche di quello teso tra il capitalismo americano e il concettualismo di matrice europea, approdato in America negli anni ’60.



Non a caso, Warhol, condivide con il francese (naturalizzato Americano) Marcel Duchamp, l’idea della necessità di un processo di democratizzazione dell’arte, in cui quest’ultima non sia un bene d’elite, comprensibile e fruibile da pochi, bensì qualcosa che deve appartenere a tutti.

E’ per questo che il francese Duchamp decide di sovvertire l’idea dell’arte come di qualcosa che è suscettibile di un’unica interpretazione e frutto di un modo di  dipingere e scolpire univoco, ma arriva al traguardo in cui ogni cosa può essere arte, anche un orinatoio capovolto, che egli ribattezza “Fontana” (è infatti questione di interpretazione e di punti di vista).

Egli strappa la tela su cui è dipinta l’opera d’arte e mostra senza remore il processo di creazione della stessa, i concetti ed il mondo emotivo, ma anche la quotidianità, fatta di tante miserie umane, che c’è dietro.



Come al solito la contemporaneità è terra di profonde contraddizioni, di antitesi e di forze opposte che finiscono per annullarsi.



Perché se tutto può essere arte, nulla alla fine lo è per davvero.


*Consulenza ad opera dell’artista Luigi Auriemma http://www.luigiauriemma.altervista.org

mercoledì 28 maggio 2014

La Buchetta: il gusto rende il turista, e non solo, protagonista

Firenze è una città dall’atmosfera magica, intrisa di storia, cultura, ma anche di amore per il territorio naturale, tutto da valorizzare.

In via De’ Benci, 3/3a a poca distanza da piazza Della Signoria e da piazza di Santa Croce si trova Palazzo Bardi, che ospita La Buchetta Food & Wine di Maurizio Eremita.

Entrare a La Buchetta, vuol dire immergersi in un modo etico di fare turismo e di gestire la ricettività perché (e qui lo dico senza mezzi termini) il turista non è visto come un atomo di passaggio da “spennare” fin quando è seduto al tavolo, ma come una persona da “coccolare” e di cui valorizzare le peculiarità, facendole assaggiare prodotti tipici toscani, ma anche una serie di leccornie tutte mediterranee.



Via libera, quindi, ad un gustoso antipasto che è un viaggio tra gli odori ed i sapori di diverse regioni.

Dalla finocchiona al salame toscano, passando per i pomodorini secchi, i carciofi sott’olio, un tripudio di  prosciutto crudo, i formaggi stagionati, il cui gusto è esaltato dalla marmellata di cipolla fatta in casa, e quelli freschi, a media stagionatura o erborinati, a cui il miele d’acacia regala un tocco in più. Per finire con la stracciatella (il cuore della burrata pugliese) da mangiare accompagnata da pane croccante.

Porzioni abbondanti in grado di saziare anche lo stomaco più esigente, oltre che solleticare il palato e la curiosità di sperimentare innovativi mix di sapori genuini.

Tra i primi: il risotto taleggio e radicchio dal gusto intenso ed i ravioli cotti al cartoccio (per far penetrare più a fondo l’aroma ed il sapore del condimento), insaporiti dalla corposità delle melanzane e piccanti al punto giusto.

Sul versante dei secondi imperdibile la fiorentina. Il titolare, Maurizio, opta solo per bovini femmine di pura razza chianina e di massimo 20 mesi. La frollatura è di quattro settimane ed avviene in stanze umide ed areate. Dietro al banco della macelleria, pronto a garantire la qualità delle carni fornite, Roberto Saccardi il cui negozio è situato in via dei Fiorentini.

Un gusto intenso e scioglievole, grazie alla morbidezza della carne, arricchito dalla possibilità di gustare un'ampia selezione di vini.



A completare il tutto un’atmosfera discreta ed accogliente, resa ancora più soft da un’accurata selezione di musica di sottofondo che, in serata, si trasforma in un sound dal vivo: dal jazz al blues passando per il rock melodico ed i duetti rock e voce. 

A livello cromatico, la scelta cade su colori caldi della terra: giallo, arancione ocra. E poi quadri che richiamano i grandi protagonisti dell’arte contemporanea.

Un’atmosfera che riflette il modo di essere del titolare e del personale, sempre sorridenti, ospitali, attenti e calorosi.

Senza dimenticare l’importanza della tradizione. Infatti, nella seconda sala  in una piccola nicchia nel muro, è protetta la buchetta (che dà il nome all’intero locale e che è venuta alla luce durante l’ultima  ristrutturazione).

Per rintracciarne la genesi, il significato e la funzione di quest’ultima, bisogna immergersi nella storia più autentica di una città bella come Firenze – come sottolinea il titolare de La Buchetta e come si legge sul sito (www.labuchetta.com, tel: 39.055.217833)  -. La storia è fatta di gente e delle loro abitudini, delle loro passioni, delle loro credenze e vizi. Passeggiando per le strade della vecchia Firenze vi sarà capitato di vedere delle ‘buchette’, poste nelle facciate dei palazzi nobiliari, piccole aperture di circa 40 cm, con una porticina con archetto superiore, molto spesso decorato da una cornice con punta a goccia, in stile bugnato o liscio in pietra e chiusa da uno sportello in legno.



Sono questi i cosiddetti ‘tabernacoli del vino’, un’intuizione delle famiglie fiorentine, che nel ’500 si erano trasformate da mercanti ad abili proprietari terrieri investendo i loro capitali tra le altre cose nel produrre ‘il nettare degli dei’. Altra utilizzazione di queste “buchette” era quella di beneficenza, si usava infatti lasciare nella piccola apertura del cibo o una brocca di vino per i bisognosi.

STORIA DI UN SOGNO TRASFORMATO IN UN OBIETTIVO

Maurizio Eremita, classe 1973, madre napoletana e padre veneziano inizialmente non ha nei suoi progetti di vita la valorizzazione territoriale attraverso i percorsi del gusto.

Biologo e chimico si occupa di strumenti medicali chimico/clinici.

A 28 anni decide di “stravolgere” la sua vita e vola a New York, dove comincia come cameriere e dopo appena sei mesi diventa manager di un ristorante.

Poi dà il via al suo viaggio intorno al mondo, in un’ottica di sperimentazione di esperienze gestionali e di incrocio di culture e sapori. Altri sei mesi in Centro America, poi in Colombia ed ancora in Spagna.

Circolarmente, riapproda a New York, diventa maitre di sala e incontra l’amore, sposando così una ragazza americana.

Dopo il naufragio della storia, con il conseguente contraccolpo, Maurizio decide di ripartire da sé stesso.

Porta con sé l’esperienza acquisita e gli odori ed i sapori infilatisi sotto la pelle durante le sue variegate esperienze in giro per il mondo.

Torna nella sua Firenze, che con le sue bellezze storiche ed artistiche attira circa 7 milioni di turisti a stagione.

Qui rileva un locale fallito e lo ristruttura con un’ottica ben precisa: Vuole creare un locale originale che “coaguli” in sé più anime.


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In ingresso, infatti, posiziona un’area per accogliere il cliente con un bar ed un social table (dove è possibile sorbire un aperitivo, fare colazione o anche solo prendere un caffè e fare quattro chiacchiere) poi una first ed una second dining (prima e seconda sala ristorante).

L’atmosfera è quella del made in Italy con il suo volto migliore, proprio quello che ha fatto dare all’Italia il nome di Belpaese.



Maurizio sceglie di offrire al cliente una rosa di prodotti mediterranei, coniugando elevata qualità e prezzo accessibile.

“Investo circa un terzo del budget sulle materie prime. In più non dimentico il mio passato, con tutta la fatica ed i sacrifici che ha comportato. Quindi,  sono in prima linea quando c’è da servire ai tavoli: in ogni aspetto della gestione del locale sono il primo a mettermi in gioco. Questo mi permette di abbattere i costi”.

La pasta fresca, la carne, i formaggi i salumi trovano qui  un elemento che aggiunge sapore: la capacità di capire al volo le esigenze del cliente.

Perché la soddisfazione di chi in un locale si sente accolto e “viziato” è il primo strumento di promozione e fidelizzazione. Il resto, quindi, lo fa, il passaparola, senza dimenticare Tripadvisor.


La Firenze vera, crocevia di storia, sapori e commerci, è qui.


martedì 6 maggio 2014

Nata viva: il coraggio di ribellarsi ad un destino predeterminato

C'è chi si trova "proiettato" nel mondo ed invece di scegliere la propria vita ed il proprio percorso decide di lasciarsi portare dalla corrente, o lasciarsi vivere  "a come viene", alla meno peggio.

C'è invece chi comincia il proprio percorso con delle  difficoltà accessorie, con delle "barriere all'ingresso", che gli impedirebbero di scegliere dove voler andare e chi essere, ma quel qualcuno proprio non ci sta e con determinazione e forza preferisce "scegliere di essere nel mondo".

Perchè autodeterminarsi è un diritto di tutti, in quanto essere umano,  e non basta respirare per vivere... anzi tra vivere e sopravvivere c'è una bella differenza.



Zoe Rondini, autrice del libro Nata viva, edito dalla Società Editrice Dante Alighieri ha con sè il coraggio di  compiere una scelta, non sempre facile ma sicuramente consapevole.

A fare la differenza sin da subito nella sua vita sono purtroppo i cinque minuti che tolgono il respiro in negativo.

Un'anossia di appena cinque minuti , un danno al cervello e la vita cambia, si complica... 

E' a quel punto che bisogna fare una scelta tra lasciarsi schiacciare dalle difficoltà, da una scelta che sembra imporcisi da parte delle circostanze o reagire e lottare per far emergere la propria essenza.

Ecco perchè Zoe sceglie con Nata viva di condividere il suo percorso esistenziale negli anni... il libro stesso è una sfida...



"Crederci fino in fondo - racconta Zoe (pseudonimo dell'autrice)  - diventa sfida quando gli obiettivi non sono utopici. Avere grandi bbiettivi ma raggiungibili e lottare giorno per giorno ci aiuta a raggiungere importanti traguardi"

Il libro racconta delle sfide ma anche delle sconfitte e delle amarezze, delusioni e ferite quotidiane. 

Perchè è anche e soprattutto attraverso la sofferenza che si approda alla consapevolezza di sè e si compie un percorso di concreta crescita.

Sulla strada sono tanti gli ostacoli per riuscire ad "incontrare" il proprio sè più autentico. 

Più "tosti" degli ostacoli fisici, delle barriere architettoniche, sono le barriere pscologiche ed emotive, le chiusure del cuore e della mente di alcuni interlocutori.

"Non ho avuto molti problemi con le barriere architettoniche - continua l'autrice -  bensì con quelle culturali delle persone che non volevano capirmi ed aiutarmi (nel capitolo della scuola soprattutto).
Ma chi si sente veramente capito negli anni dell'adolescenza? Per questo Nata viva è un libro adatto a tutti: ai cosiddetti normali ed amche chi non ritiene di essere incluso nel concetto di "NORMALITA'.".



Per riflettere insieme, per condividere pensieri ed emozioni, per sostenere in un percorso, per far sentire meno soli, quando la solitudine ed il senso di spaesamento interiore e sociale sembrano dilagare fino ad inghiottire la speranza.

La chiave di volta è l'amore: innanzi tutto quello per se stessi che poi esonda e si proietta all'esterno, permettendo di amare davvero l'altro da sè.

Amore da intendersi come un fiume, un flusso continuo, in grado di unire e di superare le differenze. 

Ma anche un amore che si traduce in  desiderio di esplorazione corporea, in voglia di contatto.

"L'amore - ribadisce Zoe -  è un aspetto della vita comune a  tutti, disabili e non. 

Tutti ci innamoriamo, ci eccitiamo, abbiamo impulsi e desideri. Forse l'amore e la sessualità ci rendono uguali nell'essere unici. Io, ad esempio, Io ho amato, sono stata non corrisposta, amata, delusa, desiderata e di nuovo innamorata. 

Non mi rassegno agli stereotipi della donna oggetto, del disabile asessuato o continuamente voglioso… è per questo che nel mio portale www.piccologenio.it faccio sentire la mia voce con articoli su questa importante tematica. Solo che ancora siamo culturalmente lontani dal superare certi tabù".



Perchè quelle differenze, che rendono il corpo diverso, a volte disarmonico e sgraziato per chi ha una disabilità grave o gravissima, troppo spesso fanno ancora paura e creano distanze incolmabili.

Innanzi tutto tra la voglia di autoesplorazione e conoscenza corporea rivolta verso se stessi e la possibilità effettiva di poter dar corso a questo desiderio a causa di gravi limitazioni funzionali, che inficiano a monte la possibilità di una reale intimità.

Si è prigionieri di un "corpo disobbediente" come lo definisce Mina Welby, che frustra e limita il rapporto innanzi tutto con se stessi, prima ancora che con un possibile partner.

"Proprio per questo, la figura professionale dell'assistente sessuale (attualmente la proposta di legge popolare è in discussione al Senato) rappresenta una figura importante, già riconosciuta in molti Paesi europei cosiddetti evoluti. 

In Italia abbiamo ancora moti pregiudizi e false credenze, freni moralistici e rigidità indondate. Questa figura è, invece, ben vista da molte persone con disabilità e dalle loro famiglie. In presenza di una disabilità cognitiva o motoria grave questa figura professionale potrebbe veramente aiutare. 

In caso di una disabilità più lieve queste terapiste dell'amore non dovrebbero sostituirsi ad un rapporto di coppia".

Dicevamo che l'amore scaturisce innanzitutto da quello per se stessi, riverbero di quello per la vita. 

Ecco perchè, paradossalmente, si può nascere vivi o essere morti emotivamente pur respirando. 



"Il mio amore per la vita - dice Zoe - nasce certamente dall'amore che si ha per gli altri e per se stessi, ma molto fa l'affetto e l'educazione ricevuta. La spinta ad 'amare' in ogni senso deriva dal  non accontentarsi e cercare di fare il massimo anche quando gli altri intorno fanno il 'minimo sindacale'. Se parlo così non è per buonismo o dottrine religiose: penso sia solo un piccolo trucco per vivere più sereni",

 Sull'onda del suo amore per la vita e della sua Determinazione Zoe non si arrende e persegue, dunque, i suoi obiettivi di vita.

Quali? Zoe li enuncia con una semplicità che incanta, facendo sorridere di alcuni rovelli mentali ed emotivi che ci rendono vittime e progionieri.

"Far conoscere Nata viva a sempre più persone. Portare a termine un'altra pubblicazione. Trovare un lavoro soddisfacente ed avere una vita sentimentale, affettiva e relazionale buona".