domenica 27 febbraio 2022

Nozze di sangue di Lorca: un'amara condanna della dittatura, capace di spargere solo sangue e dolore

E' finito il conto alla rovescia per l'ultima replica di Nozze di Sangue di Federico Garcia Lorca, in scena stasera, domenica 27 febbraio alle 18, al Tram di Port'Alba.


 


Lorca, che avrebbe trovato la morte durante il regime franchista, trae spunto da un episodio di cronaca avvenuto nell'Andalusia rurale del 1928. Un fatto di sangue e di coltello che richiama il codice d'onore tipico della comunità della tribù.

Il sociologo tedesco Ferdinand Tönnies spiega che mentre le società sono rette dall'interdipendenza reciproca sul piano della divisione del lavoro, le comunità si basano sulla condivisione di usi, costumi e tradizioni che fondano un legame che ha il sapore dell'appartenenza.
 
Un'appartenenza basata, dunque, su un rigido sistema di regole che priva le persone della possibilità di poter scegliere per la propria vita e dà loro senso e significato solo in virtù del ruolo che rivestono all'interno del sistema familiare e sociale.
 

 
 
Così sulla scena non troviamo persone appellate con il loro nome proprio bensì la Madre, il figlio e futuro sposo, la sposa, la moglie e le voci di popolo.
 
"Il vero demiugo - spiega il regista Gianmarco Cesario - è la Madre, che decide delle vite di tutti. Ella incarna il dittatore per eccellenza e per questo ho scelto di farla interpregtare da un uomo". 
 
I personaggi sono tutti vestiti di nero, a indicare la forza omologante esercitata dalla comunità, ma anche la morte della libertà e del loro io.
 
Sullo sfondo del palco si intravede una sagoma  scura. E' il contenitore degli scarni costumi di scena, essenziali eppure di grande resa, capaci di diventare un pugno nello stomaco, uno shock per le coscienze, un monito.
 
Quella sagoma, per certi versi informe e totalizzante nella sua essenza, può divenire anche una tomba: per la libertà di azione e di pensiero, per i sogni e le speranze, per la tenerezza.
 

 
 
In essa trovano riposo il marito e il primogenito della Madre, uccisi da un oggetto tanto piccolo quanto mortale e infido come un coltello, strumento di vendetta durante la faida con i Felix.
 
Trovano sepoltura le speranze della sposa, che vorrebbe vivere come un uomo e amare alla luce del sole Leonardo, ma che, per sfuggire al suo destino di sepolta viva in una casa divenuta tomba, cerca di abbeverarsi alla flebile fonte d'acqua e di vita dello sposo.
 
Non a caso il suo viso scavato, il suo pallore e le sue labbra bluastre ricordano quelli di un cadavere e la sua corona di fiori d'arancio assomiglia più a un orpello mortuario fatto di petali avvizziti.
 
Trova la fine, in quella tomba che tutto e tutti fagocita, la dedizione e la tenerezza dello sposo, tradito nel giorno stesso delle sue nozze dalla fuga della sua amata con Leonardo.
 
Trovano la fine le mire di accumulazione capitalistica del di lei padre, che in quel matrimonio vede un accordo vantaggioso e a buon mercato, attraverso il quale poter ampliare e rafforzare il suo possesso, il denaro accantonato e consolidare - nonchè migliorare -  la sua posizione nella gerarchia economica, ma anche uno strumento per avere a disposizione braccia forti per dissodare una terra arida e ingrata, che pure bisogna trovare il modo di sfruttare.

Trovano la morte anche lo sposo e Leonardo, elemento disturbante dell'intera comunità, tormentato dai suoi demoni e inseguito dalle colpe che lo stritolano e si susseguono, mordendosi a vicenda. 
 
Lui che, quasi inconsapevolemente, scompagina questa struttura ferrea, dove ognuno ha la sua funzione, facendo sì che il figlio non sia più figlio nè sposo, nè sia tale la madre, nè la sposa, nè la moglie, come ribadisce il regista.

Trovano fine anche le chiacchiere del coro, delle malenlingue, che non hanno più nulla di cui sparlare o semplicemente da commentare o invidiare.
 
E, infine, trovano riposo anche le preoccupazioni della madre, ora che non ha più nessuno su cui vegliare. Tutti, infatti, ormai riposano sotto il grano dorato, annaffiato dalla pioggia.
 
Un'atmosfera claustrofobica e ostile, soffocante, dove persino la luce della luna, anzichè portare ristoro, diventa strumento di morte, perchè disvela il nascondiglio dei due amanti.
 
Al centro di tutto c'è il sangue : che unisce, che divide, che ribolle, che offusca le coscienze e i sensi, rombando  nelle orecchie, sorde al buonsenso e alla razionalità in nome di regole primordiali e crudeli.
 
Alla fine, quando tutto è ormai perduto, la sposa tenta di ripristinare l'ordine e di tornare nei ranghi, in nome della sua virginale purezza preservata.
 
Chiede la morte o il perdono che le permetta di piangere accanto alla Madre, riabilitata nella gerarchia costituita e agli occhi del mondo.
 
Ma tra le due donne non vi può essere comprensione nè umana compassione.
 
La Madre, infatti, ha annullato completamente il suo essere donna, in nome di un concetto distorto e patriarcale di onestà, e ora ha quasi una natura ermafrodita, in cui ha inglobato, sostituendolo, l'elemento maschile del padre ormai assente. 
 
Lei non è in grado di sentire, di provare empatia e nemmeno di comprendere l'altro da sè. 

Da lei può arrivare solo una dura  condanna per la sposa, che ha ceduto alle lusinghe della passione e delle emozioni e non ha saputo preservare la sua onestà in nome delle leggi della morale.
 
Le due donne, dunque, rimangono vicine ma separate da una trincea tanto invisibile quanto invalicabile, simili a due pietà dolenti contrapposte, ognuna chiusa nel proprio universo, dove il perdono non ha diritto d'accesso.

NOZZE DI SANGUE

di Federico Garcia Lorca

adattamento e regia Gianmarco Cesario

con Pietro Juliano, Leonardo Di Costanzo, Guido Di Geronimo, Germana Di Marino

e con le danzatrici Adriana Napolitano (17/18/24/25/26/27 febbraio) e Ilaria Leone (19/20 febbraio)

coreografia Mario Guadagno

costumi ed ambientazione scenica Melissa Di Vincenzo

musiche Pasquale Ruocco

disegno luci Tommaso Vitiello

assistenti alla regia Tina Ferrante | Carmen Pennacchio


 

domenica 13 febbraio 2022

Amleto: rivelare la verità attraverso l'arte, specchio della natura

 Amleto (o il Gioco del suo Teatro) per la regia e l'allestimento di Giovanni Meola è, come rivela il titolo stesso, un gioco. Un gioco cui sarà possibile assistere anche stasera, domenica 13 febbraio alle 18:00, al teatro Tram di Portalba.

Il gioco è penalizzato nella nostra cultura di riferimento, perchè viene associato a qualcosa di fanciullesco e in qualche modo di poco importante.

In realtà il gioco rappresenta, a tutte le età, uno strumento di crescita e di confronto, utile a allenenarsi, con leggerenza calviniana, nel role taking, l'assunzione del ruolo dell'altro, un momento in cui si indossano numerosi vestiti che apparentemente non ci appartengono. Serve a sperimentare, simulandole, varie situazioni di vita.

Poi c'è anche un altra prospettiva e ce la rivela la parola inglese joke, che significa scherzo. Mi viene in mentre un vecchio adagio che ci ricorda che "nello scherzo si dicono le cose serie".


 

E'  per questo che il principe Amleto, dopo che suo padre in sogno gli ha rivelato di essere stato ucciso per mano del fratello, decide di affidare al teatro, incarnato da un gruppo di attori che divengono specchio della natura, il compito di rivelare il vero. Per non dimenticare e per non spegnere il lume della ragione e della verità. Paradossalmente, però, in un mondo in cui le apparenze sono mistificatrici e la verità viene messa a tacere, per cercare di far prevalere la ragione il principe danese deve varcare i confini della pazzia.

Pare frutto di un gioco la rappresentazione che Amleto reclama. Poco più di uno scherzo, della facezia di un burlone, quei versi aggiunti quasi a caso per un divertissement, ma l'obiettivo del principe - filosofo è ambizioso: "continuare a essere e a esistere auteticamente per sognare". Ritrovare i sogni, dunque, e fugare gli incubi. Quelli che nascono dai complotti orditi da anime nere, scure come le pareti del palco del piccolo teatro Tram di Portalba che ospita la rappresentazione.

Il teatro, dunque, liberandosi da inutili orpelli e innaturali enfatizzazioni di situazioni e stati d'animo, rivela di avere un ruolo cruciale: riflettere la realtà, esserne specchio meno reale ma più vero, e far, parallelamente, riflettere su di essa.

Secondo le parole del regista, Amleto è uno dei personaggi più moderni della drammaturgia  e delle stesse tragedie shakesperiane. Non uomo idealizzato nè monolitico, bensì essere umano scisso, frammentato, corroso da dubbi e conflitti. Profondamente contraddittorio, laddove pensa una cosa e ne fa un'altra. Prende una decisione e poi fa un passo indietro.

Ofelia è la sua figura amata e complementare. Infatti, se Amleto vive il crollo delle illusioni e lo scollamento tra il dire e il fare, Ofelia non sa concepire una realtà diversa da come appare. Troppo onesta e tersa per concepire l'accusa infima, l'inganno e il complotto, questa figura, tragica , vittima dei demoni che la perseguitano al pari del protagonista, finisce per eclissarsi, forse per scelta o forse per tragica fatalità... l'opera originale e il regista non lo rivelano.


 

Sul palco si alternano solo tre attori ad interpretare tutti i personaggi, Solene Bresciani, Vincenzo Coppola e Sara Missaglia  della compagnia Virus Teatrali.

Assistente alla regia Chiara Vitiello e costumi di scena, all'insegna dell'essenzialità, firmati da Marina Mango.

 

Due voci femminili, in dialogo con quella maschile, che sgusciano fuori dalla propria pelle per entrare in quella di vari personaggi, partorendo e riparterendo, non senza sforzo, se stessi e interpretazioni sempre più sconsapevoli in un tourbillon, un vortice, che avvolge e stupisce lo spettatore. Una rappresentazione che alterna  diversi ruoli e che affida il cambio di ritmo e di ambientazione non a caratterizzazioni fisse e alla cristallizzazione di genere, bensì all'intensità della resa scenica, capace di traslarsi e traformarsi continuamente. 

 

A distanza di secoli le donne si riappropriano del palco, interdetto loro in epoca elisabettiana.

 

Ogni personaggio ha i suoi tormenti, amplificati da una cassa che rappresenta il rimbombo del dubbio nella coscienza. Un dialogo interiore esternalizzato attraverso una serie di domande rivolte all'amico Orazio, spettatore inerme dello scorrere di tanti fatti di tradimento e di sangue.

 


Ma il dubbio non viene mai fugato del tutto.

 

"Si tratta di un'opera densa di misteri e di cose non dette - rivela Meola - . D'altronde Shakespeare faceva parte della Compagnia del Ciambellano e tanti aspetti all'epoca, persino i più impensati, potevano assumere un significato politico. Se, per esempio, il personaggio della madre di Amleto fosse stato accusato esplicitamente di essere complice nell'assassinio del marito, quest'accusa sarebbe potuta suonare rivolta a Elisabetta nei confronti di Maria Stuarda".


Il riadattamento di Meola scompone e ricompone i frammenti della narrazione, li moltiplica in migliaia di potenziali specchi, incastri e punti di vista.

 

Il risultato è che lo spettatore, così come avviene per quegli specchi... non può non riflettere... su di sè e sulla sua identità; sulla vita con le sue inevitabili e ineliminabili contraddizioni; sul valore della cultura e del pensiero critico e sulla funzione del teatro che, attraverso apparenti infingimenti e giochi di ruolo, si fa veicolo di una consapevolezza profonda, capace di bucare il velo delle apparenze.


Ph. Nina Borrelli