lunedì 10 agosto 2020

Hypàte: un inno alla libertà di pensiero ed al legittimo desiderio di esistere di Ipazia

Una rappresentazione magica e suggestiva, quella di Hypàte, a cura di Teatri di seta e Teen Thèatre, svoltasi lo scorso 30 luglio nella splendida cornice del Giardino Romantico di Palazzo Reale, nell'ambito del Napoli Teatro Festival edizione 2020.

Nonostante le restizioni, legate agli obblighi di distanziamento sociale ed alla condizione di grande difficoltà in cui versano i lavoratori dello spettacolo, lo spettacolo, scritto e diretto da Aniello Mallardo, con l’aiuto di Mario Autore, che firma anche le musiche originali, crea un alone mitico e mistico attorno alla figura di Ipazia, capace di riportare lo spettatore indietro di millenni.

 

A guidare lo spettatore in questo percorso a ritroso nel tempo sono: Serena Mazzei, Giuseppe  Cerrone, Luciano Dell'Aglio e Andrea Palladino

Filosofa, astronoma, matematica si racconta che Ipazia  d'Alessandria avesse scritto opere di pregio e fosse tenuta in gran conto anche da uomini colti, ma in realtà, come ci racconta lo stesso regista, su di lei non vi sono dati storici.

Questo fa sì che ella sia stata fatta oggetto di un processo di costante manipolazione, con livelli interpretativi multipli, che l'ha etichettata ora come guida razionale eccelsa, ora come strega, ora come martire e santa, tant'è vero che quella stessa Chiesa che ne decretò, nei fatti, la fine alla sua figura ha ispirato, quasi totalmente, quella di Caterina D'Alessandria. 

"Mi sono ispirato - racconta il regista - anche alla rivisitazione letteraria e teatrale operata da Mario Luzi. La mia Ipazia, però, vive il cruccio di ogni personaggio storico: quello di essere stata trasformata in altro da sè".

La scenografia è minimale, ma tutti gli elementi contribuiscono a dare ulteriore forza all'opera. Ipazia raccoglie e lascia scorrere continuamente tra le dita della sabbia. 

 


Sono le ceneri della memoria, delle opere, di ciò che siamo stati e che sembra riconfermare l'essenza effimera dell'esistenza umana ed anche di qualsivoglia gloria e vanagloria.

Ipazia si chiude nel silenzio, dato che il logos è perito,  a tratti pare sorridere, ma a ben vedere si tratta di una smorfia, un grido muto di sgomento ed incredulità, nella consapevolezza dell'inutilità delle parole in tali circostanze . 
 
E' quasi remota rispetto alle lotte di potere ed alle diatribe fratricide in atto, che dividono chi prima si chiamava amico e fratello o che si dimostrava capace di convivere in pace, all'insegna del rispetto. 
 
Si concentra ed è totalmente assorbita dalla scienza, sua compagna ed àncora di salvezza di fronte a tempi oscuri e brutali, dove l'estremismo, la violenza e l'oscurantismo hanno soffocato e ridotto al silenzio la voce della bellezza, del dialogo, della ragione. 
 
 

A più riprese Ipazia rivendica il suo essere stata una donna in carne ed ossa, reclama persino il diritto di possedere umane imperfezioni, mediocrità e fragilità , e di non essere solo il parto della penna di un poeta. 
 
Piano piano, però, le sue stesse certezze vacillano ed ella stessa finisce per perdere il senso della sua identità, diventando estranea a se stessa, argilla nelle mani di chi in lei vede una risposta funzionale ai suoi bisogni ed ai suoi perchè, di chi, in perfetta buona fede, cerca e vede in lei un punto di riferimento, ma anche di chi, in maniera dolosa e fraudolenta, vuole piegarne esistenza e memoria ai propri scopi.
 
E' il caso, ad esempio, del vescovo Cirillo che, tra blandizie e minacce, cerca di portare questa donna, saggia, forte e fiera, dalla sua parte, per defraudarla della sua popolarità e della stima di cui è attorniata e trasformarla in una femmina mite e sottomessa, che ammette i suoi peccati e la sua corruzione morale e si pente, divendo esecutrice degli ordini maschili e schiava delle altrui voglie. 

Ma Ipazia non si piega e Cirillo è certo di una sola cosa: non si può credere in ciò che lui proclama e seguire i dettami di saggezza ed equilibrio di quella donna libera: le due strade sono inconcili. Quindi lui la dichiara sua nemica e bersasglio dei suoi monaci invasati.
 
 

Un giorno Ipazia, che sta attraversando la città con la sua biga, viene tirata giù, denudata, privata della sua intimità e della sua dignità e fatta a pezzi con cocci di vetro acuminati.

Mani avide ed irrispettpose, al pari di cani rabbiosi schiumanti, la afferrano,  la dilaniano, la violano, la deturpano: cancellano ogni traccia di lei, consegnandola per secoli all'oblio. Parimenti anche Alessandria perderà il suo ruolo di centralità e diverrà luogo marginale ed oscuro.

Sottratta alla storia, con la morte Ipazia entra nel mito, non più fatta di pelle, legamenti, muscoli, ma delle parole d'inchiostro, mutevole e cangiante, di dotti e letterati. Non più figlia di suo padre, che le trasmise la passione e l'abnegazione per la scienza, bensì frutto della narrazione di un  menestrello.
 
Forse è morta giovane o forse già canuta. Forse produsse opere di pregio, da scienziata avanguardistica, o forse solo torie mediocri, le stesse di chi insegue un sogno, ma non riesce a tradurlo in realtà. 
 
 
 
Forse fu amata e venerata da due suoi discepoli o forse visse nell'algida torre d'avorio delle sue convinzioni, sorda al richiamo dei sensi e dell'amore, venerando solo il suo sacro femminino.

Vittima di un colpevole oblio durato secoli, ella ritroverà il lustro dell'eternità solo a caro prezzo ed accettando il sapore amaro della manipolazione e della strumentalizzazione, ormai divenuta non più ciò che ha scelto di essere, bensì ciò che gli altri vogliono ed hanno bisogno che ella sia, trasfigurata dal loro sguardo e dalle loro parole. 

"Nel corso dei secoli - evidenzia Mallardo - spero sia cambiato o stia cambiando l'approccio storico. La storia, infatti, ha un orizzonte molto più ampio di quello che per tanto tempo ci è stato raccontato: non comprende solo il punto di vista dei vincitori, bensì molteplici prospettive e angolazioni da cui guardare ai fatti. Comprende le vite dei piccoli, capaci di fare grandi cose".

 
** Le foto, che immortalano attimi di grande intensità, sono di  Giorgia Bisanti

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