La paura siCura indaga le paure quale risposta ad un
persistente bisogno di sicurezza, ma lancia anche il messaggio che dalla paura,
intesa come angoscia logorante, si può uscire, perché ce ne sono molte non
oggettive e fondate, tali da essere, appunto, curate.
Durante il percorso audiovisuale delineato da Vacis
incontriamo la storia di Suleiman, giovane africano ventiduenne, che ama la scrittura
e la utilizza come via di fuga, come strumento catartico, per sottrarsi all’overthinking, al pensiero ossessivo, che
si avvolge su se stesso ma attraverso il quale non si trova una soluzione.
I ragazzi ed i bambini si interrogano tra loro ed
interrogano i più grandi, per comprenderne il punto di vista e le emozioni,
entrando nelle loro vite e nelle loro storie… In questo modo scoprono che
dietro chi credevano essere “uno qualunque” si celano dolori quasi
inconfessabili, drammi, ferite e coaguli di paure.
In quegli sguardi, cui spesso sfuggiamo per non
vedere, si ritrova una comune umanità .
“Non ho mai pensato – dice un’adolescente - che oltre al bisogno di sussistenza, lavorare,
avere soldi ed una casa, ci siano negli immigrati sogni, voglia di fare,
aspirazioni…”.
I sogni svaniti: quelli di una giovane 17enne, che
dopo un problema legato al comportamento alimentare che l’ha condotta a svariati
ricoveri e quasi a perdere se stessa, ha
rinunciato al suo sogno di vivere con e per la danza, perché si sente “in ritardo
per sfondare” e non sufficientemente all’altezza, e quelli di un giovane
ventiduenne africano, scrittore, che ha visto via via svanire tutte le sue
chimere, volatilizzate e distrutte ed alla fine l’Italia l’ha lasciata.
E poi la storia di Carmen, sudamericana. che vorrebbe fare la psicologa a tempo pieno,
ma dato che non le viene riconosciuto il titolo conseguito nel suo Paese, per
sopravvivere è costretta a prostituirsi in un basso a Genova.
Strade relativamente sicure e case dove, in maniera
nascosta ed impensabile, si consumano
violenze ed orrori.
E poi la paura della morte tra fede e nichilismo,
tra speranza e sgomento.
“Il metodo utilizzato – spiega Vacis – è quello dei
video-colloqui, che sono diversi dalle interviste. Infatti, nell’intervista vi
sono delle domande cui viene chiesto di rispondere fornendo un’opinione. Con i
video-colloqui si chiede una narrazione. Ho fatto 300 video-colloqui per un
film di un’ora e un quarto. Anche se non si sente io faccio delle domande in
cui chiedo di fornire storie legato ad momento della vita in cui hanno avuto
davvero paura e ne avevano ragione e ad altri in cui hanno davvero avvertito paura
ma alla fine non ne avevano ragione,. Pensavo che molti racconti densi di
timori sarebbero stati legati agli immigrati ed invece no: neanche uno. Non che
questi sua statisticamente rilevante, ma credo, non me ne vogliano i sociologi,
che il mondo non si possa descrivere e comprendere attraverso sondaggi e
statistiche. Se cercassimo di capire il mondo attraverso le storie, forse troveremmo delle ragioni di convivenza
un po’ più solide”.
A Genova le prostitute non hanno paura bensì vergogna, quando sono
costrette ad “esporsi” per sopravvivere… Rinunciano ai propri sogni: da un
ristorante sudamericano all’idea che, forse, avrebbero potuto diventare un
giudice o un’avvocatessa. Rinunciano e chinano la testa… chiudono gli occhi e
vanno avanti… anche se non sono nate per fare la “cortigiane”.
Davanti alle telecamere i ragazzi, gli adolescenti,
piangono molto. Il loro è un pianto liberatorio ed empatico o piangono, forse,
perché le trasmissioni televisive, di quelle scenografiche, hanno fatto
passare l’idea che “i giovani quando piangono sono più belli?".
Durante questo viaggio, Vacis incontra anche i nonni
civici, che hanno riscoperto un’importanza e ruolo per la società, cui è
corrisposta una rinascita individuale, anche per chi nonno biologico non è riuscito ad esserlo.
Eccoci catapultati a Catania, nel quartiere Librino..
Un ragazzino ricorda come si tratti effettivamente di una città dentro la
città, come dicono i telegiornali, ma come non sia “una città buona”. La parola passa ad
un’operatrice sociale che ribadisce come non si sia pensato ad una città per
l’uomo. E’ una città dove non si ha la possibilità di incontrarsi.
La mancanza di prospettive di futuro crea l’idea di
una città vuota, simile ad una casa vuota.
La povertà, la coesistenza di poteri istituzionali e
mafiosi, spesso conniventi, crea la vera insicurezza, secondo chi
quell’atmosfera lugubre e priva di prospettive cerca di trasformarla
quotidianamente. Infatti, di fronte a questo scenario carico di nubi scure, la
speranza è figlia degli sforzi fatti dagli animatori di strada per vivificare
il quartiere-dormitorio, regalando un sorriso ai suoi abitanti. Se nei bambini Montegranaro
fa paura la casa di Satana, che poi rivela di essere solo il locale caldaia, dove
avevano trovato rifugio alcuni disperarti, un locale caldaia poi ripulito dalle
forze dell’ordine, dove, i più grandi dicevano ci fossero drogati, stracci
intrisi di sangue e persone quasi morte, a Librino a incutere timore è il
palazzo di cemento.
“Io parlo da educatore – evidenzia Cesare Moreno, presidente dell'associazione Maestri di strada ONLUS - .
Tutti noi pensiamo, anche a livello inconscio, che le paure siano irrazionali,
ma il paradosso è che le paure di cui si parla in questo film sono perlopiù
frutto della razionalità: sono paure intellettuali. Esistono le paure ‘fisiologiche’
che nascono da un pericolo oggettivo e generano la scarica di adrenalina. Ma in
questo caso non è così: si tratta, ed in questo i bambini sono particolarmente
acuti, perlopiù di una paura legata all’ignoto, anche il mancato apprendimento
ad esempio è legato alla paura dell’ignoto, di ciò che non si conosce. Ecco perché
la paura della morte e la paura per antonomasia, poiché è legata al timore di
non sapere cosa ci sarà dopo. Ci sono anche altri tipi di paure che sono più
contingenti, di tipo politico-giornalistico,
che è evidente essere costruite. Poi c’è una paura concatenata ad altre, che
secondo me è davvero importante: quella di essere totalmente assorbiti dal
proprio ambiente. La paura di essere annullati da uno sguardo stereotipico e il
paradosso di questa paura e che chi più ha paura del suo esistere in periferia ,
poi è proprio colui che rischia maggiormente di veder concretizzarsi quel
timore, sia che scappi, sia che rimanga, come accade nella maggior parte dei
casi, finendo per essere assorbito da questo nulla. La paura del nulla è la
peggiore delle paure possibili, perché non ha un nome, perché è difficile da
combattere. Noi siamo lì per provarci”.
Parlano proprio gli abitanti del temuto palazzo di
cemento: “Qui non trovi niente… puoi andare solo a spacciare… a rubare – dice
un ragazzo, con un’aria che impasta sfida e amarezza -. A 17 anni io non ho
avuto nulla e non ho alcun sogno o desiderio.. forse l’unico e più vero e
quello di andar via”.
A fargli eco un altro adolescente, sulla soglia
dell’età adulto, cresciuto in quel condominio, tra spazzatura, topi e mancanza
anche dei servizi più basilari “… E’ meglio andar via – dice - che provare a cambiare le cose”.
I ragazzi di Librino, o per meglio dire quelli del
palazzo di cemento, come racconta un ‘operatrice, hanno paura di non essere
considerati bravi, belli, capaci ed
all’altezza, magari perché non sanno parlare bene italiano. Poi basta
costruire insieme ad un operatore sociale un pinocchio di legno, impilando un
mattoncino sopra l’altro e le paure si sciolgono come neve al sole...
Alla fine di questo viaggio, al regista resta una
sola certezza, salda in mezzo a molteplici dolori e paure: “la sicurezza più
che con le telecamere, le ordinanze la polizia ha che fare con la verità, la
conoscenza, la bellezza”.
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