C’è ancora tempo fino a stasera, sabato 8
febbraio, alle 19 e domani, domenica 9 febbraio, alle 18, per assistere allo
spettacolo Ad occhi chiusi, di scena al teatro Tram di Portalba (12 euro
il biglietto intero, 10 per gli under 26).
Un intenso Andrea Fiorillo, in questo monologo, indossa vari abiti e lo fa
magistralmente passando dall’uno all’altro apparentemente con fluidità, ma
provocando, nello spettatore, una serie di strappi e shock emotivi.
Ad orchestrare la narrazione è il
regista Luca Pizzurro e lo fa
scegliendo le parole, i gesti e l’ambientazione giusti, talmente giusti da
apparire profondamente disturbanti ad un certo punto. Così veri da provocare ribellione
interiore, sdegno, disgusto, come reazione di fronte all’impotenza del dolore.
Uno spettacolo coraggioso, che ha la
forza di narrare un orrore quanto mai attuale, quello della pedofilia, un
orrore talmente grande ed indicibile che a tratti viene da pensare che la
narrazione voglia orientarsi verso un’altra vittima di un amore malato,
distorto e distruttivo.
Forse questa vittima potrebbe essere
Italia, la donna che il protagonista conosce durante il suo vagabondare per
Roma, lui così socievole e disponibile verso il prossimo che tutti gli si
affezionano. E gli si affeziona anche lei, che al mercato compra frutta e
verdura difettati, perché meno costosi, e li porta a casa, trascinandosi
pesantemente, pronta a preparare un lauto pasto per un parentado assente, ma
immaginato.
Fin quando non arriva lui, una sorta di
eroe, cui il pubblico inizialmente non può che affezionarsi, anzi il regista
orienta la narrazione affinché sia così. Lui che condivide le domeniche vuote e
solitarie di questa donna appesantita e delusa dagli anni ed ama i suoi intingoli, per quanto pesanti ed
a volte indigesti.
Lui, giunto nella capitale dalla lontana
Sicilia, dove ha lasciato madre, nipoti ed un pianoforte che sapeva suonare con
dita leggere.
Lui che di quella Sicilia rimpiange i
refoli di vento ed il colore del cielo.
Lui che in quella stanzetta angusta,
prepara un caffè, lo sorbisce piano, ascolta musica classica, guarda vecchie
fotografie e legge qualche pagina di un libro, anche se qualcosa sembra
distrarlo, innervosirlo, sottrarlo a quel piacere semplice: ora è il contattore
che, scattando, lascia la stanza immersa nel buio; ora lo sbattere insistente e
inopportuno di una finestra, che fa entrare, con prepotenza, la vita esterna in
quello spazio ristretto.
Lui così garbato e rassicurante.
Ed è ancora un eroe quando guarda da
lontano, pronto ad intervenire, i soprusi di due ragazzini che si accaniscono
su una busta ballonzolante, contenente , a ben vedere, degli esseri viventi,
dei minuscoli gattini, uno dei quali viene accecato con uno spillone rovente,
ma costretto a rimanere in vita e ad affrontarla “ad occhi chiusi”, portando
addosso, a mo’ di croce, il peso della sua diversità e delle sue difficoltà procurate da altri.
La pena dell’uomo quando si avvicina e
vede il povero gattino inerme, abbandonato a se stesso dopo essersi dimenato
per il dolore di fronte al supplizio subito, è tangibile, così come
l’ammirazione per l’animale che, nonostante la subalternità e la forza impari,
ha comunque cercato di difendersi, apportando un danno alla mano del suo
carnefice.
Ed è ancora un eroe, che muove nello
spettatore sentimenti di tenerezza, quando dalla finestra osserva qualcuno che
calcia un pallone negli afosi pomeriggi estivi. Nessuno gioca con lui e la sua
solitudine è palpabile.
Solo l’uomo gli offre amicizia e ristoro
dalla calura, in un posto dove ci sono mura spesse che celano e proteggono
l’intimità.
Quello stesso uomo arriva in soccorso
anche della famiglia del piccolo, che di anni ne ha appena 10, dove la madre è
sola e con un marito in galera.
A questo punto però la prospettiva si
ribalta: l’uomo diventa un carnefice, costringendo il bimbo a baci che gli
rubano l’innocenza, l’infanzia e la spensieratezza per sempre. Dai baci passerà
alla masturbazione, resa sulla scena in maniera cruda, senza celare nulla, in
un’atmosfera sempre più allucinata.
Nella testa dell’uomo è tutto distorto:
il terrore del bambino viene scambiato per incitamento, in assenza di proteste
verbali, che muoiono in gola; il suo
tentativo di ritrarsi diventa un gioco per irretirlo; il suo chiudere gli occhi,
per non vedere l’abuso cui è sottoposto, decodificato come un segno di piacere e
lascivia. L’uomo ribadisce di aver agito per amore, solo per amore.
La prospettiva continuerà ad essere
distorta anche quando il bambino avrà il coraggio di parlare con la madre,
inizialmente incredula, e quando alla sua voce si unirà un coro sempre più
ampio.
L’uomo reagirà prima con incredulità,
poi con rabbia, sentendosi vittima di un’ingiustizia, proprio lui che ha aiutato
e supportato tutti quei bambini con amore. Lui abbandonato e ferito nella sua
tenerezza profonda per Marco, che “aveva un’anima” e le sue stesse dita da
pianista, una ferita che non si rimarginerà presto. Lui vittima dell’invidia di
chi quell’amore non sa capirlo. Lui vittima di un odio e di un disgusto che
stenta a comprendere. Quasi un martire, vessato e oggetto di bieca
discriminazione.
DIETRO LE QUINTE E DENTRO LO SPETTACOLO
Luca Pizzurro, il regista dello
spettacolo, è consapevole che si possa cadere in errore su chi sia la “vittima”
di questo amore malsano, forse perché l’opinione pubblica ha i “nervi tesi” su
alcuni temi.
Nel parlare con Luca l’orrore, però, si
dilata ed amplifica, perché si scopre che lo spettacolo prende le mosse da una
storia vera, appresa durante una cena di dieci anni prima.
In un momento conviviale, il “carnefice”
sceglie Luca come suo interlocutore e confidente, raccontandogli gli abusi
perpetrati nei confronti di molti ragazzini. Lo fa con estrema tranquillità e
con un senso di sconcertante ed aberrante “normalità”, come se si trattasse di
una bravata, senza alcuna traccia di rimorso: supporto materiale in cambio di
favori sessuali e del silenzio.
Si tratta di ragazzini poco più grandi
di Marco, il protagonista dello spettacolo, ma che, come lui, sono privi di una
rete di protezione sociale, privi dei mezzi necessari al proprio sostentamento,
vittime di un subdolo adescamento da parte di chi occupa una posizione
privilegiata.
Un macigno cala sul cuore di Luca attraverso questa discesa agli
inferi e ingigantisce il bisogno di sublimare quell’orrore, di compiere un
percorso catartico attraverso la scrittura, di denunciare questa profonda
ferita inferta a chi è fragile, fiducioso ed indifeso, di porre una sorta di
freno sociale attraverso il discredito.
La genesi di questo testo lo vede fare
una serie di ricerche, attraverso giornali e libri, per “entrare” nella mente del carnefice, dove
“tutto è ribaltato” e carpire frammenti del suo spostamento di valori. Ma i
libri non bastano: Luca parla anche con alcuni ragazzi vittime di violenza ed
abusi, la cui vita emotiva è stata distrutta per sempre, i cui occhi si sono
per sempre chiusi su un futuro luminoso, sostituito da una prospettiva buia,
abitata da incubi e da un’incessante sensazione di sporcizia che rimane
attaccata al corpo ed all’anima.
Il regista ha intrapreso un percorso di
scavo ed approfondimento psicologico sia incentrato sulle vittime sia sui
carnefici, che spesso, a loro volta, hanno subito la stessa sorte e ripetono il
medesimo copione, cercando di affrancarsi dalla violenza subita divenendo
abusanti, in una sorta di rivalsa e di rivincita.
Pizzurro tratteggia la figura del
carnefice in chiaroscuro, riuscendo, con maestria, a non rinunciare alla cifra
stilistica di un “teatro poetico”: anche lui riesce a provare pietas, anche se per un gattino e, nella
sua visione distorta e ribaltata, lui prova davvero amore per quel bambino,
benché si tratti di un amore malato.
Poi la sua riflessione si sofferma sul
proprio io e si allarga anche alla società circostante: quella cieca, che
chiude gli occhi di fronte all’orrore, o prova un’empatia “monca”, a singhiozzo
e selettiva.
La reazione del pubblico, non solo ieri
sera, ma anche nel corso degli anni e delle diverse rappresentazioni, è stata
diversificata, come ricorda lo stesso Pizzurro.
“Dipende da come si vive il dolore –
ribadisce il regista – c’è chi ci si avvicina, ha bisogno di comprenderne le
radici e lo attraversa. Chi se ne allontana e fugge”.
** Le foto sono di Sergio Siano
Nessun commento:
Posta un commento