domenica 13 maggio 2018

La legge Basaglia: una riflessione 40 anni dopo

Compie quarant'anni la legge Basaglia, troppo riduttivamente ricordata come quella che ha segnato la chiusura dei manicomi.

Spesso ingiustamente accusata di essere "colpevole" di aver rimesso in libertà dei "pazzi" che poi hanno arrecato danno alla collettività con gesti sconsiderati e violenti.

Tacciata di errori e mancanze, di colpe, dovute alle falle di una struttura sociale dove troppo spesso la "produttività", intesa come surplus economico che l'individuo riesce a produrre ed a garantire nell'immediato, è l'unica misura del valore dell'individuo e dove si vale solo se si rappresenta e si offre qualcosa che è quantificabile ed ha un prezzo.

Invece, la Legge Basaglia è e fu artefice di un nuovo approccio all'individuo con sofferenza mentale e psichica. Un'approccio desanitariazzato, una prospettiva sociale dove si tentava di ridare legittimo diritto di cittadinanza e dignità alla persona in quanto tale.

"In base all'approccio in animo alla legge Basaglia - sottolinea il direttore del dipartimento di salute mentale della Asl Napoli 1 Centro Fedele Maurano - dove non c'è libertà non c'è cura. Quindi non si può fare salute mentale in carcere". E di conseguenza, in nessuna istituzione totale, secondo il termine coniato dal sociologo Erving Goffman.



Secondo la spiegazione di Maurano, fino al 1978 vigeva una legge, risalente al 1914, che aveva subito una lieve modifica nel 1965, in base alla quale ai cosiddetti "pazzi" non era riconosciuto alcun tipo di dignità e tutela.

La reclusione, di tipo non curativo e riabilitativo, bensì reclusivo, veniva ordinata anche per una lieve alterazione dello stato di coscienza, o ancora per motivi ereditari, per mettere a tacere chi faceva indagini e domande scomode o rispetto a chi veniva percepito come "diverso"  nello  stile e  nelle scelte di  vita.

"L'impegno a favore del miglioramento della qualità di  vita dei pazienti, attraverso un'implementazione dei  servizi -  continua Maurano - non fa notizia. Esistono ancora stereotipi striscianti  che associano la sofferenza mentale ad una vergogna da nascondere. Quello  che dovrebbe fare notizia,m in negativo, non è il sofferente psichico che, preso da delirio, accoltella la madre, bensì tutto il background di degrado, mancanza o insufficienza di servizi, scarsità di risorse e mancata valorizzazione delle competenze più adeguate, che ha permesso che una tragedia del genere potesse consumarsi. Attualmente l'approccio è sempre più sanitarizzato ed affidato quasi escludsivamente a medici ed infermieri. Sono insufficienti psicologi, antropologi,. assistenti sociali: in tutto poco meno di 30mila operatori".



A conti fatti, vi sono 20mila persone "in accompagnamento" e cura  a carico del Dipartimento di Salute mentale, tra servizi territoriali ed ospedalieri della ASL Napoli 1.

La sofferenza psichica, secondo l'approccio proposto da Basaglia, non è solo un "problema" della persona, di carattere sanitario, bensì dell'intera collettività e necessita di un intervento trasversale, di tipo sociale.

Attualmente, dunque, sembrerebbe che si sia fatto un deciso, e doloroso, passo indietro. Proprio per questo è importante denunciare, anche attraverso gli organi di stampa. Perchè, come ribadiscono gli organizzatori dell'incontro, dedicato ai 40 anni, anche recuperare la capacità di "dire", il coraggio delle cose dette, per quanto pesanti, dure e scomode, può avere un effetto dirompente al pari dell'impegno a costruire servizi davvero funzionali, cui venga destinata un'adeguata percentuale di risorse.

Per uscire dalle sabbie mobili di un approccio alla salute mentale basato sulla psicopatologizzazione occorre ascoltare, scambiarsi visioni, curare le relazioni, curare la sfera emotiva, come hanno ricordato gli addetti ai lavori. occorre rifuggire dai mezzi di contenzione e dall'applicazione coattiva della violenza.

STORIE CHE SI INTRECCIANO ALL'OSPEDALE LEONARDO BIANCHI

Dopo vent'anni dalla chiusura dei manicomi, , La Regione Campania ha autorizzato la vendita del Bianchi, affinchè la struttura possa essere "messa a reddito" ed i soldi ricavati possano essere destinati ai servizi ospedalieri e territoriali dedicati alla salute mentale.



La parte anteriore monumentale è previsto rimanga, invece, proprietà della ASL Napoli 1.

"Per molti - racconta il giornalista Francesco Romanetti che per 'Il Mattino' ha curato uno speciale dagli archivi dell’ex manicomio Leonardo Bianchi - entrare in questo ospedale psichiatrico equivaleva a morire anzitempo. Non a caso molte delle 60mila cartelle dei pazienti parlano di decessi".

In quei padiglioni, dove i pazienti erano divisi in "Tranquilli", "Sudici", "Agitati", "Furiosi" (e poi venivano gli ambienti dedicati alla chiesa ed all'obitorio), si poteva finire per molti motivi, alcuni futili, altri legati a mera discriminazione sociale, altri ancora per volontà dolosa di parenti ed antagonisti.

Bastava, ad esempio, come racconta chi quelle storie le ha vissute indirettamente o raccontate e denunciate, che alcuni parenti si mettessero d'accordo per far internare un loro congiunto ed impadronirsi così dell'eredità o del patrimonio. O ancora essere impotenti, ninfomani o omosessuali, dal "contegno" ritenuto puerile, inidoneo, o "femminile".

In manicomio finivano anche i cosiddetti "scemi di guerra": persone che, segnate dalla ferocia dei conflitti e dalla violenza, finivano per perdere il senno. O, al contrario, coloro che fingevano turbe psichiche per non fare il soldato ed essere arruolati.

Tante le storie di tristezza e malinconia.
Come la vicenda della "donna scimmia". Finita all'Annunziata a soli tre mesi, questa bimba non camminava nè parlava. A credere in lei, nelle sue potenzialità e nel suo riscatto umano possibile, un'operatrice che le insegnò a parlare e camminare, ma che, purtroppo, poi venne trasferita.



A quindici anni, la giovane si svegliò, di notte, in un letto trasformato in un lago di sangue a causa del primo mestruo.

Digiuna di spiegazioni, di figure di riferimento e presa dalla paura per l'accaduto, la poverina si mise ad urlare spaventata e fu ricoverata in manicomio, perchè reputata pazza. Manicomio dove trascorse quasi tutta la vita, fino a 62 anni, abbrutendosi, in uno stato di degrado ed abbandono. Spesso non si lavava nè vestiva e viveva accasciata a terra. il corpo, a causa dei tanti medicinali assunti affinché fosse sedata, si ricoprì di peluria. 

Da qui il terribile appellativo. Sta di fatto che quando la donna lascìo l'ospedale, benchè ormai in là con gli anni, appariva carina.

Come canta Caetano Veloso "visto da vicino nessuno è normale". Molto pericolosa, poi, è quella finta vicinanza che allontana, alimentando la diffidenza.

Alla dialettica tra normalità e pazzia è dedicato il corto, realizzato da Alessandra del Giudice e Giovanna Amore di Napoli città solidale "Io (non) ci metto la faccia",https://www.youtube.com/watch?v=lnmLM1P_ie4, che racconta storie di disagio ma anche di riscatto esistenziale e di come sia facile "scivolare" nella follia ed essere etichettati come "matti", perdendo la fiducia, la considerazione ed il rispetto da parte dei propri interlocutori.

Al confronto Com'è cambiata l'informazione a 40 anni dalla legge Basaglia, su lessico, temi legati alla salute mentale e deontologia anche Ottavio Lucarelli, presidente dell'Ordine dei Giornalisti della Campania, il consigliere Vincenzo Esposito, il direttore dell’Emeroteca Tucci Salvatore Maffei (a lungo giornalista di giudiziaria per importanti quotidiani e riviste nazionali), il presidente di Gesco Sergio D’Angelo che ha partecipato al processo di dismissione dagli ospedali psichiatrici e al reinserimento degli ex internat,; e il sociologo visuale Marco Rossano, organizzatore del Premio Cinematografico Fausto Rossano dedicato alla salute mentale.

La chiave di volta, forse, sta nel passaggio dall'emarginazione, intesa come una ferita, una frattura, una cesura, un'espulsione (dal gruppo di riferimento e dalla collettività), ad una rimarginazione possibile, basata sulla tutela della dignità e sul rispetto del diritto di cittadinanza, su un processo di inclusione a 360 gradi.



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