Sono passati alcuni giorni, coaguli di ore e microcosmi di attimi dalla conclusione della mostra Partono 'e Bastimènte, a cura di Chiara Reale.
L'esposizione, visiva e sonora, promossa dall'Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli, è stata ospitata nella Sala delle Carceri del partenopeo Castel dell'Ovo, che sorge sull'isolotto di Megaride, dove si dice sia stato sepolto il corpo della Sirena Partenope o, forse, ci sia la tomba di Ifigenia.
Forse il tempo giusto per far sedimentare le emozioni e trovare le parole giuste per condividere le impressioni suscitate...
Le voci che intonano un canto ed un controcanto sono quelle di Stefania Raimondi ed Angela Colonna, ognuna secondo il registro dei propri specifici linguaggi espressivi.
Alle loro si uniscono tante altre voci, i cui volti spesso rimangono in ombra o si dissolvono... Quelle dei migranti, quelle degli esseri umani sopravvissuti, a demoni esterni ed interni in lotta tra loro, la cui battaglia all'ultimo sangue ha lasciato sui corpi di questi esseri umani, usati come agone e campo di battaglia, graffi, ferite, cicatrici, danni, ma anche nuove consapevolezze.
Le voci, modulate in canti, delle sirene. Le voci di una città che al di là ed al di sopra del frastuono del traffico e dei rumori molesti ed assordanti, mantiene una propria identità forte.
Una città, il cui corpo, fatto di luoghi fisici, di vicoli e di frammenti di presente e di passato, si mischia, impasta ed amalgama con i corpi dei suoi abitanti.
Una città in cui anche gli odori ed i sapori si traducono in suoni: quelli degli inviti a pranzo gioiosi, quelli del rumore dei mestoli, dei piatti e delle stoviglie, accompagnati, in sottofondo, dallo sciabordio del mare e dai racconti di chi di questa urbe è memoria storica individuale e collettiva, attraverso i racconti degli usi, dei costumi. delle tradizioni, dei miti e dei riti che testimoniano un radicamento territoriale che si declina alla voce appartenenza.
E' proprio il corpo al centro della riflessione pittorica di Stefania Raimondi, profonda conoscitrice dell'anatomia umana, un organismo insieme fisico e simbolico.
"In queste opere - racconta Chiara Reale - Stefania trasfonde anche parte della sua biografia. Si tratta di un dolore, di una ferita esteriore, impressa nel corpo, che si riverbera nell'anima, sotto forma di dolore interiore. Questo percorso pittorico ha anche un valore catartico".
Trentasette tavole con figure incise su legno, gessi, cartoni, realizzate utilizzando materiale di recupero.
Stefania, richiamando un concetto caro anche alla cultura Mahori, compie un'operazione maieutica. Non inventa nulla, come sottolinea lei stessa, ma si limita a svelare quanto quegli oggetti recano già al loro interno, l'anima che celano e proteggono, srotolando il filo di una narrazione.
"Togliendo l'eccesso - spiega la curatrice - svela quello che c'è sotto, portando alla luce quello che già esiste. Parallelamente, porta avanti un processo di scavo interiore, una migrazione in se stessi".
Figure nude, inscheletrite, il cui viso è nascosto o sbiadito e quasi si dissolve. Alcune hanno i genitali esposti, quasi che per loro non fosse immaginabile la possibilità di tutelare una legittima sfera di intimità. Altre li celano, pudicamente, con un cencio o un velo.
Con quel velo, facendosene quasi scudo, alcune figure sembrano accennare passi di danza nel e con il vento.
Alcuni hanno persino rinunciato a coprire le loro nudità, quasi che il loro anelito e slancio vitale sia definitivamente azzerato, ma si coprono gli occhi, la testa ridotta ad un teschio, a voler nascondere a se stessi nuovi orrori.
Altri voltano lo sguardo, l'espressione imbarazzata e vergognosa, le braccia dietro la schiena, in un misto di pudicizia e rassegnazione, o forse le loro mani sono legate, come avviene per chi è prigioniero o viene torturato
Corpi, come evidenzia la curatrice, di sopravvissuti, che hanno attraversato un inferno personale, riportando profonde cicatrici su cui costruire altro. Un inferno fisico ed emotivo, che ha permesso loro di trovarsi in una nuova dimensione.
"Si tratta - continua Reale - di migrazioni fisiche, ma anche attraverso molteplici stati d'animo".
Corpi "messi in croce", come lo siamo in fondo tutti, secondo quanto ribadiscono gli addetti ai lavori.
Grazie a una composizione di file recordings, un vero e proprio intervento di sound art ideato da Angela Colonna, alla polirumorosità cittadina, come la definisce l'artista, si sostituisce il soundscape, il paesaggio sonoro. Le stratificazioni pittoriche e le tracce sonore si rincorrono e si completano.
La bellezza delle opere dialoga e si compenetra con quella del luogo, in perfetta armonia, una location da vivere e "respirare".
Un luogo "abitato", anche momentaneamente, da tanti personaggi di spicco, dall'ultimo imperatore romano a Tommaso Campanella, ma anche da tante vite di "uomini non illustri, come li avrebbe definiti Giuseppe Pontiggia, che hanno fatto la storia, hanno contribuito ad intesserne le trame, ma che non vedranno mai i loro nomi riportati e ricordati nei libri.
Angela Colonna, nel suo soundscape, ricostruisce il corpo di Napoli, anche quello martoriato, attraverso le voci di persone che non hanno un volto e un nome, a delineare il percorso di una mostra che non si propone di fornire risposte, ma di sollevare dubbi e domande.
Così il corpo di Napoli si fonde e si compenetra con il nostro stesso corpo, divenendo insieme carcere corporeo e carcere che ci costruiamo attraverso i legacci imposti dalla nostra stessa mente. Un limite visto e vissuto sempre come una sfida, un qualcosa da attraversare e da superare, per non ristagnare, rimanendo fermi nello stesso punto.
Un gioco di specchi tra interno ed esterno.
"Non a caso - ribadisce la curatrice - la genesi di quest'esposizione è durata tre anni, per riuscire a valorizzare nel modo giusto un'arte figurativa e concettuale insieme".
Il peculiare allestimento completa questo percorso, dove contenitore e contenuto si confondono così come significante e significato.
Grazie al valente contributo di due architetti sono, infatti, state realizzate delle grate sulle quali montare le tavole pittoriche.
"E' anche importante il movimento della luce - dice Reale -. Esse rimandano al carcere, ma stimolano ancora una volta all'attraversamento. Sono fisiche, palpabili, ma anche proiezioni e si riverberano a terra sotto forma di ombra. Si tratta, dunque, di un carcere vero o di una sorta di illusione, costituita dalla nostra area di comfort, all'interno della quale ci rannicchiamo e rinchiudiamo, pur di sentirci al sicuro?".
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